di Marcello Buttazzo –

Mattinata all’Approdo di Porto Cesareo. La Corriera ci ha condotto, ancora una volta, alla nostra preferita meta marina. Io e Giuseppe, per qualche ora, abbiamo dimenticato ogni ansietà, abbiamo abbracciato nostro fratello mare, ci siamo tuffati nel sole. Abbiamo guardato oltre la rossa boa. Abbiamo modulato stanchi, incerti passi sull’arenile a cercar quiete. Ancora una volta, abbiamo sentito il riverbero di antiche chimere, in frotta le abbiamo viste in banchetto a predare l’anima, a frastornare l’aria di lamenti. Gli occhi, d’improvviso, fissi all’orizzonte. Non abbiamo sentito più il vento soffiare la sabbia. Ha taciuto il trambusto dell’anima. Ha taciuto davvero il tempestio dell’anima, ogni turbamento s’è silenziato stamane, al mare. Io e Giuseppe abbiamo carezzato le brezze marine, la meraviglia, lo stupore fanciullo. Il poeta Ennio Cavalli, anni fa, scriveva che poeti non sono tanto coloro che scrivono versi, ma piuttosto coloro i quali sanno guardare la realtà con occhi d’incanto. Con occhi bambini. Siamo in tanti ad essere poeti, per lo strabilio che proviamo nell’osservare l’adamantina purezza della Natura. L’infinito del mare. Oggi, abbiamo notato dolcissime ragazze di rosso e verde vestite nei cristallini mari delle belle attese. Una moltitudine natante diguazzarsi fanciulla nelle fresche acque della nostra vita. Bianche farfalle volare e sfiorare pesciolini argentei, fra i consueti palloni in volo, bambini che s’inseguivano fiduciosi, palette e secchielli d’umida sabbia, costumi d’arcobaleno, la pace vagheggiata. I materassini colorati, corse di pulcini, piccoli da abbracciare forte e baciare. Bianco candore di finissima rena, fresche acque di verde smeraldo. Il cuore colmo d’umana bellezza, io e Giuseppe abbiamo spiato oltre l’ultimo orizzonte, di là della rossa boa del pensiero attuale che ci invoglia a fermarci, a stazionare, a non andare. E, nello stallo, abbiamo visto l’eterna chimera danzarci intorno, fra torrenti di luce, diluvi di cadute stelle, marosi tempestosi e festosi d’amore. Sì, abbiamo visto l’inesausta chimera danzarci intorno. L’incanto e le sue multiformi sfaccettature.

L’incanto ha una memoria, si sostanzia di vissuti. Giuseppe mi ha confidato che, nei periodi più cupi e comunque particolari, s’è sempre salvato provando meraviglia per la vita. Da piccolo, quando si trovava in Istituto presso le suore di Santa Maria di Leuca, impiegava parte del suo tempo ad osservare attentamente dalla collinetta il litorale marino. Da giovane, negli anni del carcere a Sulmona, ha potuto dar vigore, nonostante tutte le avverse evenienze, alla sua esistenza respirando a fondo quella meraviglia viva, che è scompiglio positivo e fantasticheria. Immaginifica visione. A Sulmona, in prigione, Giuseppe ha incontrato l’amico fraterno Ugo e un parroco d’un certo riguardo, che lo ha invogliato alla lettura. Ma dicevamo, lo stupore. Giuseppe per salvarsi la vita, fra le dure sbarre, cominciò a dedicarsi alla lettura e alle piccole scritture. Nel tempo morto, per ravvivare l’aria, mirava minuziosamente dalla sua cella i monti della Maiella e gli altri monti. Da lì, ha visto le luci notturne dei paesi, i fuochi pirotecnici. E l’aquila volare. Fra le chiuse sbarre, ha intravisto una vita più accettabile, più a misura d’uomo. Anche allora ha veduto l’eterna chimera danzargli intorno. E qui di seguito una poesia che Giuseppe Fioschi ha scritto sugli anni di detenzione a Sulmona:

“Mi destai dai miei incubi
che avevo già 40 anni.

Furente perforai l’anima mia
precipitando nelle lacrime dei miei danni.

Aprii il cuore avvinghiato
ai miei nuovi desideri
mi lasciai vivere.

In me un eroe.

Guardavo affamato le montagne,
il cielo e quanto c’era da vedere
con occhi di stupore, desideroso di capire
che niente era più scontato…”.