di Marcello Buttazzo –

È lo spazio
tra un risveglio e l’altro
il tempo.
Un dito lo sfiora,
ma la mano
non l’afferra
e lui non sa
né di canto
né di dolore.

È stata pubblicata, a giugno 2024, da Storie di Libri di Pasquale Cavalera il nuovo libro di versi di Maria Campeggio, dal titolo “Nell’oblio mi siedo”. Questa silloge segue alle raccolte “La rosa di Gerico”, “Cristalli d’anima”, “E di nuovo venne l’alba” e “Di pura luce”. In tutti i lavori di Maria Campeggio emerge come leitmotiv l’amore incondizionato per la parola. Con la parola si edificano ponti di conoscenza, si costruisce il rapporto serrato con l’altro da sé, si scava nella propria interiorità per far balenare alla luce del sole zone d’ombra e tracce di splendore. E Maria è molto attenta alla parola. Con certosina precisione l’autrice indaga la realtà, che riesce peraltro a trasfigurare in efficaci visioni immaginifiche. La sua poesia è lineare ed essenziale, fotografica. Maria riesce a cristallizzare nello spazio breve dei versi moti d’anima, sentimenti, pensamenti. La sua poesia non conosce orpelli e ridondanze, va subito spedita all’obiettivo: mostrare e rappresentare scenari vari con il medium d’una letteratura non astrusa, non incomprensibile, ma piana, chiara, moderna. Maria all’inizio della raccolta “Nell’oblio mi siedo” professa a chiare lettere la sua intima devozione alla poesia: “Coinvolge e sconvolge/perché la parola ha poteri inimmaginabili. /” E ancora così scrive Maria: “Imperituro/è l’Amore per te, /luminoso faro/nella mia esistenza, / diletta Poiesis/che attraversi/l’Eternità./” Per Campeggio, che è una musicologa, una pianista, non è possibile vivere senza poesia. Maria conserva lo stupore bambino, l’incanto, la meraviglia, e tutte le prerogative illese del fanciullino, senza le quali la scrittura diviene solo un freddo dominio della ragione, un argomento ragionieristico buono per stilare dati e numeri. Invece, per Maria la scrittura è un gioco, peraltro serissimo, studiato, meditato, perché i suoi versi sono redatti con la penna intinta nel rigore lessicale e semantico. Lei scrive bei versi, che arrivano alla pancia, al cuore, al cervello. Nelle sue opere, Campeggio sa trovare l’alchimia giusta per interessare e stimolare la nostra immaginazione di lettori. Mi piace molto la sua prerogativa fanciulla, l’ho sempre apprezzata. Dalle prime volte che, anni fa, mi ha telefonato e poi ogni volta spedito i suoi libri. Dalle volte in cui mi ha invitato alle sue presentazioni e a partecipare ad alcuni reading a Parabita. Questa sua inclinazione e predisposizione a trattare la poesia come un gioco serissimo e ad avere una luce bambina che le barbaglia negli occhi sono anche gli antefatti che, in questi anni, l’hanno portata a partecipare a numerosi premi e ad ottenere riconoscimenti (menzioni di merito, menzioni d’onore, primi premi). Ricordo che recentemente è risultata vincitrice assoluta al Premio letterario “Massimo D’Azeglio” di Barletta. Scorrere i versi di “Nell’Oblio mi siedo” è piacevole, è una lettura maieutica, si scende nel fondo del fondo dei sentimenti con la lanterna dello speleologo. Con la penna carezzevole della poetessa. Il suo è un Canzoniere d’amore, con tracce significative della sua terra d’origine, che si mantiene nel perimetro della pagina e, al contempo, valica la silloge stessa, stimolando in noi la voglia, la brama di andare per le strade di Parabita. A conoscere quei posti, ad incontrare quella gente. Nella scientifica postfazione, a un certo punto, il professore Vito A. D’Armento scrive: “Un volume coerente con le sue precedenti raccolte, come a dire che quel che conta per l’Autrice è la sinfonia che si trova in una orchestrazione coerente e unitaria”. Ho avuto modo di scrivere piccole note per le altre raccolte di poesie di Maria Campeggio. A mio parere, “Nell’oblio mi siedo” è la sua opera più bella e più intensa. Ho potuto notare immagini liriche accattivanti, del tipo: “Vieni stanotte/nell’aranceto/ e ti racconterò/una storia./; “Ho memoria/di speranze./M’illudo./ Così va la giostra./; “Pulisci/Luna,/il tuo piatto sporco./Ridacci l’innocenza./”; “La cicala/percorre/il suo tempo,/la formica/lo logora/impazzita d’avidità./; “Afferrare i mattini./È così/l’esistenza che va./”. Dicevamo che in questa silloge si respira pienamente la terra di Maria. Parabita ha un sapore antico, di buono. Un paese che offre ricotta e gnocchi di patate agli angoli delle strade coi calcinacci sulle vie. L’aria faugnosa ristagna in estate. E le caruse zzite s’incipriano per sposarsi, mentre passano sciarabbà diritti alle campagne. Ben caratterizzati e incisivi sono i versi intrepidi, intraprendenti, d’un eros ardente: “Desidero/percorrere/da eremita/il tuo corpo/e tornare furtiva/la notte/ per desiderarti/sempre di più./”. “Nell’oblio mi siedo” non mancano note di melanconia, ma è viva. L’amore può essere assente, latitante. Alcune volte è idealizzato. Altre volte ancora vissuto, esperito: “Correvamo/Eravamo increduli. / Erano fluidi/i baci,/accese le carezze./”. Alcuni versi sono dedicati al silenzio e alla preghiera. Campeggio ha una sua spiritualità, una religiosità, che potremmo definire panica, considerato anche lo spazio rilevante che ha nei suoi versi lo sfolgorio della Natura. Maria si lascia guidare dal tempo, che è qualcosa di ineludibile, di ineluttabile, uno scorrere senza posa, che decide i momenti, le stagioni: “Rapidamente/va il meriggio, /rapidamente/va la notte/che decide l’alba. /”. “Nell’oblio mi siedo” è una silloge da leggere, perché la poesia di Maria è una poesia onesta, che merita il nostro interessamento. Vorrei chiudere con una puntuale notazione del professor Vito A. D’Armento: “Parole che nelle sillogi di Maria Campeggio si raccolgono in un vocabolario personale che si fa ecologico e spirituale insieme, perché in questo consiste la innocente semplicità del suo canto”

Un accenno
di sembianze
si posa
sulle tue labbra,
quel chiarore incerto
le rende ineffabili.
E io non so dire
se mi hai stregata
o mi hai dipinta
sulla tela
di un destino informe.

                         Marcello Buttazzo