un racconto di Vittorio Nacci*

Girai per tutta la casa in cerca di un asciugamano da spiaggia. Frettolosamente. Gli altri dovevano essere già tutti lì, ad aspettare me. “Alle 19 al parcheggio di S. Elena.” – ci eravamo detti. Trovai il telo mare, era sul balcone dalla mattina. Quando ero tornato dal mare, lo avevo steso lì, al Sole. Lo infilai di forza nel borsone. Chiusi con difficoltà la lampo che sembrava dovesse sbottare da un momento all’altro. In tre o quattro minuti ero al parcheggio. Gli altri mi guardarono, chi scocciato chi divertito dalla mia goffaggine nel cercare di tirare fuori in fretta quel borsone stracolmo e pesantissimo.

“Wè.”
“Ooh!”
“e finalmente..”
“…poi dici a noi…”

Ognuno ne disse una. Marco, Cecco, Daniele e Ivan.

Saremmo partiti con la “7 posti” di Cecco. Una Fiat Ulysse del ’97 messa piuttosto bene ad un primo sguardo. Caricammo tutto nell’enorme portabagagli e dopo il secondo tentativo l’auto si mise in moto. Prendemmo la statale e dopo una quarantina di chilometri, l’autostrada. Tirammo dritto sull’Adriatica dopo Canosa, Termoli, Pescara, Ancona, Bologna e poi una virata di un paio d’ore in direzione Genova passando per Piacenza e Voghera. Di quello che potevamo chiamare viaggio non pianificammo nulla. Avevamo deciso per la Liguria. Punto.

Percorremmo un bel pezzettone dell’Autostrada dei Fiori proseguendo verso ovest. Erano le 5 e il Sole ancora gemeva, era solo un chiarore, ora verso il mare ora verso i monti, a seconda della direzione che prendeva la strada. Qualcuno ricordò ad alta voce che lì non avremmo visto l’alba sul mare, qualcun altro rispose che non era detto e che sarebbe dipeso da dove saremmo andati a finire. Tutti fummo d’accordo con quest’ultima affermazione. Più tardi notammo un paesino che sembrava venisse letteralmente vomitato dai monti per come precipitava le sue case verso il mare. Con qualche esitazione e non troppe parole si decise che ci saremmo fermati lì. Il Sole ormai s’era svelato e dalla nostra posizione potevamo tranquillamente dire che la sua luce stava gocciolando sul mare. Il paese finiva su una lingua di mare formatasi naturalmente. Le case la seguivano e, più in là, una spiaggia allungava stancamente le sue dita di sabbia nel Mar Ligure, accarezzata dalla risacca. Decidemmo di parcheggiare su di un piccolo molo che precedeva il centro abitato. C’erano solo gozzi bianchi, azzurri con strisce rosse che pigramente assecondavano il movimento delle piccole onde. Ivan indicò la strada che avevamo davanti e ci fece notare che ai lati erano montate delle luci a festa su pali di legno verniciati di bianco. Ci mettemmo in marcia e nel silenzio del mattino i nostri passi scricchiolavano su un asfalto non troppo asfalto. Ci saremmo aspettati di vedere un pescatore con la faccia corrosa dal sale avvicinarsi al molo, attrezzare il gozzo e partire, ma niente. Tutto chiuso e fermo. Persino l’aria.

Arrampicandoci verso destra, su una stradina a chianche, incontrammo una sedia di legno, di quelle richiudibili, che sostava sull’uscio di una porta-persiana azzurra aperta. Proseguimmo senza fermarci. Qualche metro oltre, sentimmo un rumore di passi lenti, trascinati, e l’attrito della sedia sulle chianche. Ci voltammo tutti con la stessa urgenza. Un vecchio signore, esattamente come ce lo eravamo immaginato, stava effettuando tutta una manovra per accomodare il suo grosso corpo su quella fragile sedia. Accompagnò il suo accomodarsi tenendo le mani sulle rispettive ginocchia e inspirando, come stesse compiendo chissà quale pachidermica impresa. Daniele fu l’unico a non rimanere incantato da quella scena. Si avvicinò al vecchio e gli fece con una fortissima cadenza barese (e chissà perché) – “Maestro, qua niente sta per dormire?”. Il vecchio buttò in giù la testa, chiuse gli occhi come a ricercare un dato dimenticato nella sua memoria polverosa, alzò nuovamente il mento e con gli occhi ancora serrati – “Sci, u ghe sta a ca’ da Gina ca fa durmi’ a gënte…”. Daniele si voltò verso di noi, come se attendesse una traduzione. Non arrivò. Al che tornando con il corpo rivolto al vecchio – “Scusi, non abbiamo capito…” – e quello, facendo un movimento col capo in direzione della strada – “c’è Gina che fa dormire. Avanti, qua.”. Sospirammo. Daniele ringraziò per noi, fece cenno di saluto con la mano destra, lo imitammo e il vecchio sollevò per l’ultima volta il mento, congedandoci.

Dopo circa trecento metri, quando la strada a chianche aveva ormai lasciato il posto a scale sempre più ripide trapunte di sampietrini marroni, ecco un’insegna a bandiera: B&B da Gina. Ivan immediatamente suonò l’unico campanello. Dall’esterno non ci sembrò un vero e proprio bed & breakfast, sembrava piuttosto una normale abitazione del centro storico. Attendemmo. Ivan risuonò. Una luce improvvisamente cominciò a provenire dalla finestra del primo piano. Si aprì la finestra. Si affacciò un ciuffo di capelli grigiastri arruffati. Le imposte vennero chiuse assieme alla finestra. Dei passi provennero dalle scale. Poi la serratura del portone. Clack-Clack-Clock. Il portone si aprì: Gina.

Una signora piccoletta, tozza, tutta guance, gli occhi chiari e un vestito rossastro con una fantasia a fiori viola.

“Seh!?”
“Signora” – fece Ivan – “è un bed&breakfast vero?”
“Seh!!”
“Noi saremmo 5, c’è posto?”
“Seh” – La donna fece segno con la mano di aspettare. Chiuse il portone. Salì pesantemente le scale. La sentimmo ridiscenderle affannosamente. Clock. Riaprì il portone – “15€ a persona, non a stanza.”
“Ok” – le fece Ivan senza esitare.

Gina aspettò, noi capimmo che stava in attesa dei soldi, in fretta frugammo nei nostri portafogli, racimolammo 75€ e Ivan guardandola le mise la somma nella mano sinistra che aveva già pronta a conca. Con la destra lei cercò qualcosa nelle tasche del vestito. Si sentì un rumore di chiavi. Erano chiavi. Le porse a Ivan, tenendole da una tavoletta di legno con sopra inciso GINA 73. Ci disse di tornare in giù, ripercorrendo la stessa strada, e di fermarci al numero 73. Appunto. Circa colazione e tempo di permanenza non si espresse. Si rinfilò in casa sua senza salutarci e niente e… Clock!

Tornammo tutti all’Ulysse di Cecco, prendemmo i bagagli. Il Sole faticava tantissimo. Tornammo al numero 73 di Via de’ Satri. Uno stanzone enorme. I letti, disposti come in una camerata, erano sei. Tre da un lato e tre dall’altro. Il pavimento era di cotto grezzo. In alto un lampadario in ferro battuto cui funzionavano solo tre lampadine su cinque. Sulle pareti sopra i letti c’erano due grandi quadri. Stampe vecchissime, scolorite. Una riprendeva un porticciolo, sicuramente in Grecia. L’altra una marina, probabilmente Imperia. Il bagno era entrando subito sulla destra. In fondo, diametralmente opposta all’ingresso, una balconata dava su un cortile interno non troppo curato.

Subito dopo aver appoggiato il borsone sul mio letto corsi a darmi una sciacquata di faccia. L’acqua era fresca. Freschissima. La pelle parve come se mi si stesse tirando sugli zigomi e rimasi gocciolante di fronte allo specchio montato sullo stipo sopra il lavandino. Spezzai il flusso dell’acqua un’altra volta, la raccolsi e me la scaraventai di nuovo sul viso. Gli asciugamani già c’erano. Chissà da quando. Mi diedi un’asciugata distratta per lasciarmi la sensazione bagnata sul volto. Informai gli altri, intenti a disfare le loro valigie, che sarei andato a fare un giro. Mi sentì solo Marco che senza voltarsi mi rispose tendendomi un pollice in su’. Sapevo che si sarebbero messi a dormire per recuperare la stanchezza accumulata durante il viaggio. A me non andava proprio di perdere quel momento incontrato poco prima sul molo. Decisi di andare a riprendermelo per coccolarmelo ancora per un po’.

Durante il tragitto dal b&b al molo ebbi modo di notare altre luci sistemate ai lati delle strade. Doveva esserci stata una festa patronale o qualcosa del genere, magari invece si sarebbe dovuta svolgere di lì a poco – pensai. Ancora nessun essere umano occupava lo spazio di quelle strade. Un gruppo di gatti mi guardò passare senza perdermi di vista. Per un attimo, profumo di limoni.

Arrivato alla foce di quel gruppo di case basse e fitte, davanti a me si aprì l’azzurro accecante di un mattino limpido. In un silenzio assurdo potei riuscire ad ascoltare il battito del mio cuore che cadenzava il respiro. Mi diressi verso Ovest, verso l’inizio di quella penisola di case che pareva sprofondassero nel mare, la lingua di paese protesa verso il niente. Guardai a destra verso i monti. Il bianco di quel presepio rimandava la luce pesante e fitta dritta nei miei occhi; al centro una pausa verde spezzava il ritmo delle case. Una villa, pensai, Un parchetto, forse. Decisi di scalare il paese e indagare. Più salivo, più tornava alle narici quel profumo di limoni che poco prima avevo percepito, appena sorretto e portato dalla brezza. Qualche finestra timidamente si svelava al mattino ormai fiero. Qualche voce. Qualche colpo di tosse. L’odore del caffè. Erano le 7.

La scalinata arrancava ripidissima, arrancavo anch’io, con le palpebre pesanti ma non ancora rassegnate ad un incanto così intenso. Un labirinto di sensazioni. Passai sotto un piccolo arco dentro il quale era fissata l’immagine di una madonna. Aveva un bambino cullato sul suo braccio sinistro, gli occhi in alto e la mano destra che reggeva quello che sembrava essere un cilindro di pietra. Aveva il collo alto, come nell’iconografia bizantina. Né lei, né il bambinello avevano l’aureola. Girai a destra dopo l’arco, costretto dal senso di quella scalinata, e mi trovai davanti un piccolo cancello in ferro, nero, aperto. Quel profumo di limoni ormai penetrava le mie narici costringendomi a socchiudere gli occhi. Dopo una piccola esitazione entrai. Ecco. Un agrumeto.

Erano alberi bassi, sembrava non ci fosse mai stata una foglia secca lì, era tutto tenuto pulito in maniera esasperata. Sul pavimento neppure i residui di fiori d’arancio, nulla di nulla. Assomigliava ad un giardino segreto. Sfidava la pendenza perché era piano, senza discese né salite. Una pausa verde. Tra gli alberi correva un sentiero di ciottoli che percorreva tutto il diametro dell’agrumeto, creando una forma ellittica. Dei raggi, invece, portavano verso il centro. Non riuscivo a scorgere cosa ci fosse. Mi fermai sotto una chioma verde puntellata di giallo, tirai verso di me un ramo e ci tuffai la faccia dentro. L’annusai a pieni polmoni. Doveva essere quello il profumo del Sole, pensai.

Mi inoltrai seguendo il sentiero di ciottoli trasversale, doveva condurre al centro dell’agrumeto. Mi condusse, dopo una manciata di passi, proprio al centro. C’era un cerchio fatto di chianche, lo stesso tipo di chianche bianche che avevo visto in Via de’ Satri. Nel mezzo c’era una struttura grigia cilindrica. Feci per avvicinarmi e notai che era tutta in pietra. Al centro aveva un buco. Un pozzo, pensai. Sul bordo si rincorrevano come dei chiodi, arrugginiti molto spessi. Ebbi l’immagine di quella madonna sotto l’arco. È lui. Lo portava sulla mano. Quel cilindro tenuto da Maria nell’immagine sacra che avevo incontrato sotto l’arco durante la salita.

Mi affacciai senza toccarlo e guardai giù: nero. Chissà se c’era dell’acqua. Mi prese la voglia di gettare una pietra giù per capire, mi voltai per cercarne una e vidi avvicinarsi dal fondo del sentiero una vecchina che camminava tutta curva, non si curava dei suoi passi, guardava dritto. Veniva verso di me. Nella mano sinistra aveva un Giglio. Doveva essere stato raccolto da poco. Notai la sua mano nodosa, percorsa dalle vene che trasparivano come grandi raccordi stradali sotto la pelle sottile. L’aspettai trattenendo il fiato. Mi si avvicinò e fece come se non ci fossi. Allungò la mano destra per cercare qualcosa. Trovò la mia pancia. Sussultò e la ritrasse immediatamente.

“Mi scusi” mi fece rassegnata, con lo stesso volume di voce che avrebbe potuto avere una libellula. Flebile.
“Signora, perché si scusa?”
“A nu pensavo de truvà carcun autru.”
“…non mi aveva visto?”
“A nu ghe veggu, suenottu.”
“Non ho capito signora…”
“Non vedo giovanotto, i miei occhi non vedono.”

Mi chiesi come avesse fatto a capire che ero propriamente un giovanotto. La voce forse? Il tessuto della polo? Lei proseguì –

“Di dov’è che sei?”
“Puglia, signora, ma…”
“Ah, lontano.”
“Già… senta…”
“E sei venuto da solo?”
“No, signora, con i miei amici però..”
“Ah, che bello. Per la Madœnna de’ Satiri?”
“Cos’è?”
“Ancoei festeggiammu a Madœnna.”
“Ah” – cominciai a capire, quindi continuai – “…e come mai non c’è nessuno a quest’ora?! Neppure i pescatori sono usciti in mare…”
“Il giorno della Madonna dei Satiri non si esce in barca. Vella a nu vœle. Tutti a durmì!!”
“Capito, certo.” – feci io, ripensando al mio paese. Avrei potuto e dovuto intuirlo prima, anche da noi i pescherecci rimangono nel porto il giorno della Madonna.

La signora, che mi disse di chiamarsi Fedora, mi spiegò che la festa consiste tutta in quell’agrumeto. Come tradizione, si parte dalla chiesa di S. Satiro, di fronte alla “Lèngoa“. La Lèngoa sarebbe quella penisola ricoperta di case bianche, la prima cosa che dall’auto avevamo notato quella mattina, avvicinandoci al paese. Significa Lingua. I Satri, così si chiamano i portatori, prendono in spalla l’immagine sacra della Madonna e scalano a turno, dandosi 5 cambi, fino all’agrumeto. Durante il tragitto ai balconi le donne piangenti vestite di nero con il velo di pizzo a cingere la testa, gettano fazzoletti imbevuti di vino rosso addosso alla statua della Madonna. “Significa il sangue di Cristo” – mi fece la signora in dialetto, scuotendo il Giglio. Mi spiegò che alla fine della processione le tolgono il velo fatto di pelle di vitello dalla testa, lo dispongono sul buco, che sarebbe il pozzo al centro dell’agrumeto, successivamente lo tendono e lo inchiodano tutt’attorno come a formare un tamburo. I battitori, in un secondo momento, prendono delle grosse mazze di legno d’ulivo ricavate dai remi dei gozzi, all’estremità di queste viene fissata una grossa punta fatta di stracci rossi, anch’essi imbevuti di vino, e con queste percuotono la pelle. Il suono che ne esce è quello di un enorme timpano sinfonico. Viene suonato per tutta la notte da tutti i pescatori del paese, famiglia dopo famiglia. Si balla al suono del buco, mentre la Madonna, ormai posta sul piedistallo alle spalle del pozzo, veglia le danze, il vino, le urla delle donne in festa e i pochi ragazzi che cercano tra i rami dei limoni gli sguardi delle ragazze. A loro volta le fanciulle (così le chiamò), timidamente contengono il sorriso nei loro occhi straripanti di giovinezza. La festa termina all’alba del giorno seguente, allo scoppio del cannone medievale sistemato sulla punta del molo. Neppure il giorno dopo si lavora, mi ha spiegato. Si resta in casa a dormire fino al pranzo che viene preparato dalle donne anziane del paese. Spesso, le anziane, non riescono a durare tutto il tempo di una notte e hanno la possibilità di riposare.

Poi la donna cominciò a parlarmi di suo marito, morto in mare quarantadue anni prima. Si erano conosciuti proprio durante la festa della Madonna dei Satiri, nel 1948. All’epoca dei fatti lui era già pescatore per l’insistenza-obbligo di suo padre. Scuole non ce n’erano, tenne a specificare. Suonava il buco assieme alla sua famiglia, era il loro turno. Lui voltandosi annoiato scorse con gli occhi la figura di Fedora nel momento stesso in cui lei stava raccogliendo un limone finito per terra. Lei non notò il suo notarla. Fedora aprì il limone con le mani fresche, ne addentò uno spicchio con le labbra morbide e subito esse si strinsero in una smorfia tiratissima. Scuotendo la testa incontrò lo sguardo di Stefano e non lo lasciò mai più. All’alba del giorno che li vedeva divenuti un cuore solo, lui spezzò un Giglio da un balcone basso sulla discesa verso la Lèngoa e le infilò il gambo tra i capelli ramati. Lei, dal giorno della morte di Stefano buttava nel buco un Giglio spezzato, ad ogni Madonna dei Satiri. Lo avrebbe fatto fino alla sua morte.

Mi scese una lacrima. La bevvi.

Fedora si congedò accarezzandomi un braccio, si voltò lentissimamente e percorse la strada da cui era venuta. Come un lampo mi abbagliò il pensiero che lei facesse quella strada partendo chissà da dove. Completamente a memoria. Rimasi a guardarla fino a che non sparì dietro l’ultimo arancio, alla fine del sentiero.

La mattinata la passai in giro per quelle strade antiche. Presi un caffè in un bar sulla Lèngoa e mi affrettai verso la spiaggia. Immersi tutta la testa in acqua. La scossi e la feci gocciolare per un po’.

Pensai a Fedora e Stefano. Ne immaginai gli sguardi. Le carezze. E mi piacque pensare che facevano l’amore ogni giorno, al risveglio magari. Sul gozzo, al tramonto. Nell’agrumeto. E creai nella mia mente l’immagine di loro due non ancora ventenni. La pelle profumata di lei sulla carne salmastra di lui, scurita dal Sole della loro terra.

Inspirai, per un attimo mi parve che il Mediterraneo mi stesse violentando i polmoni.

Mi svegliai.

Prima ancora di rassegnarmi all’idea che fosse solo un sogno, afferrai le lenzuola fresche del mattino. Solo dopo ebbi il coraggio di aprire gli occhi.

Cercai di sentire il dolore di Fedora, appena vedova, nel portare la mano, il braccio, al di là del suo lato del letto. Non sentire il corpo di lui. Non avere la possibilità di schiudere il frutto del loro amore per far germogliare ogni mattino una vita sempre nuova e reinventarsi la passione ad ogni bacio.

Afferrai la sua purezza e la feci mia, potendone quasi accarezzare il sapore. Come si accarezza un’amante bellissima. Senza violarla.

Lasciai la presa dalle lenzuola stropicciate.
Andai alla finestra.
L’aprii.
Afferrai un respiro e lo regalai al vento.
Profumo di limoni.

*Il racconto è tratto da LA MANDRIA UMANA, CSA Ed., 2016.