di Ilaria Seclì – È che ci siamo abituati all’infelicità. Non ricordiamo più e siamo confusi.
Il divertimento tenta di supplire la gioia. Spiagge gremite, corpi sconosciuti addossati l’uno all’altro, musica a palla, cocktail in mano, pazienze messe alla prova solo per trovare parcheggio, pagarlo profumatamente, ubriacarsi.
– Ti ricordi che eravamo felici con nulla? E non avevamo una lira. Ridevamo con poco a 10 passi da casa, nel punto d’incontro fissato una volta per tutte, senza bombardarsi di messaggi virtuali che consumano le ore i giorni il tempo: messenger, whatsapp, SMS, gruppi, telefonate, squilli su squilli su squilli. Trilli su trilli, ma niente fate.
Ora, il mio terrore è che tutte queste pratiche di un’evasione senza evasione, di divertimento senza gioia, arrivino nel luogo del silenzio. Più esattamente, nella marina del silenzio. Dove un Santo irlandese ogni volta che vai ti dà felicità e pace a piene mani. Marina scampata ai traffici del turismo e delle mode globalizzate, urna di memorie che non vogliono essere ricordate ma che lì vivono benissimo, tra mare calmo di scirocco e tempeste di maestrale, tra foschie sonnolente e chiarore che in giorni benedetti illumina le montagne dall’altra parte del mare.
Marina del santo irlandese di cui sempre più spesso si sente parlare.
Rivalutazione è parola buona volendo. Ma a volte sa di fanatismo ariano: combattere tutto ciò che è diverso, imperfetto, indipendente, fortemente caratteristico in nome di un decoro che pialla tutto, conforma, usurpa e scippa carattere, personalità, specificità. Quell’anima dei luoghi, sempre più svilita, mercificata, annullata.
È come per i bambini che hanno tempo libero e azionano la loro naturale fantasia inventando giochi e storie. Mentre altri in un attimo di tregua dagli impegni extra-scolastici si annoiano.
La struttura abbandonata di fronte al mare. Lì dentro ci sono un bel po’ di personaggi letterari, molti della famiglia di Thomas Mann, i sanatori della montagna incantata, di morte a Venezia. Le lagune piatte.
S. Cataldo, marina snobbata da molti e amatissima da altri, è come un convento, un giardino delle delizie dove puoi entrare e nessuno viene a disturbarti, nemmeno i monaci, nemmeno il giardiniere.
Tu sei lì in una terra di nessuno o degli angeli, in un mare di pace e silenzio che le spiagge di grido si sognano. Ho quasi paura a dire questo, non vorrei destare l’interesse del Briatore di turno. Ma forse si è già destato. Sento parlare di resort. Per usare un’espressione giovanile: anche no, grazie.
Nell’ora del crepuscolo si aggirano anziani quasi o del tutto mitici, con canne da pesca al seguito. Sembra danzino preghino contemplino. In un silenzio irreale prezioso e sacro come l’acqua che scarseggia in tempi di siccità.
Il signor Carlo sembra un cubano, non so bene perché. Forse per via della macchina lunghissima e ancora più vecchia di lui. È alto dinoccolato magrissimo, parla poco. Ma mi ha detto il suo nome e da dove veniva, la sera che abbiamo attaccato bottone. Certo, non ho approfondito il tema della solitudine del pescatore e perché di sabato sera ci trovavamo soli io e lui in quella pace celestiale e quel silenzio che volgeva al tramonto.
Una spiaggia piena di lidi e resort e alberghi e altre figate non avrebbe agevolato l’incontro. Io e il signor Carlo cercavamo proprio quel posto. Venuti dalla città rumorosa e ciarliera in 10 minuti abbiamo raggiunto il luogo più bello e silenzioso del mondo.
Dicevo, una spiaggia piena di lidi e pub e alberghi non sazierà la sete di chi cerca un luogo dove ascoltare il mare. E leggere e sentire voci di vecchi e bambini. Non dell’ultimo disco estivo sparato a tutto volume con pedane e machi e cubiste semi nude che dettano dall’alto balli smorfie e ammiccamenti vari. Che fine faremmo io il signor Carlo, la vera Trilli nascosta con centinaia di altri personaggi di romanzi nascosti e ancora felici dentro il palazzo abbandonato?
E i signori e i bambini che ritornano di anno in anno e ci si riconosce e ci si scambia un gesto di simpatia senza proferire parola, quasi lieti di ritrovarsi, che fine farebbero in mezzo a una bolgia informe caotica spersonalizzata urlante e sculettante?
E poi il santo, il Santo che dà il nome alla marina silenziosa…
Dicono si aggiri prima dell’alba un po’ sul lungomare un po’ sulla battigia. Orgoglioso di aver dato il nome a quel luogo di pace. Neanche lui la prenderebbe bene. Voci di corridoio sostengono abbia scritto all’interno delle mura del palazzo abbandonato: San Cataldo è San Cataldo, non è Gallipoli.
E più in là, su un pino dell’ostello della gioventù: restauratemi con garbo e con rispetto. Abbiate memoria dei leccesi che qui per decenni e decenni hanno scelto un mare di silenzio.

Ilaria Seclì – 7 agosto 2017