di Marcello Buttazzo –

L’alba e la magia del sole che ritorna. L’alba che oltrepassa le asperità della notte e ci apre alle novità. Talvolta, non c’è un’alba radiosa senza una notte tormentosa. La notte può essere anche troppo scura e obnubilante, può opprimere. Ma poi, comunque, viene l’aurora come una rivoluzione, come un anelito di libertà. Lo scrittore Aldo De Francesco, da un po’ di anni scomparso, scriveva che l’alba può essere una tensione dell’anima: “L’alba è la promessa del giorno, la promessa della vita. Il corso ulteriore è poi la battaglia aspra della vita, e la battaglia acre, a volte, dell’amore”. Arthur Rimbaud nell’alba assimilava il presagio e la lotta, il preannuncio e l’esito. Tutto è inciso con lettere chiare o con simboli silenti nel lucore del primo albore. Rimbaud vezzeggiava l’alba: ”Alba di giugno battagliera”; “Alle quattro del mattino, in estate”; “L’alba dorata e la sera rabbrividente…”; “Ho abbracciato l’alba d’estate”; “L’alba estiva ridesta le  foglie e i vapori…”; “In una bella mattina, presso un popolo dolcissimo…”. Quante volte, dopo un’insensibile e crudele notte, abbiamo rivolto all’aurora la nostra silenziosa preghiera. Sommessa preghiera di parole taciute. Come dire: Ansimante notte/lascia il posto/alla fiammeggiante aurora./È ora di svegliarsi,/il giorno non può attendere. /Prestò uscirò/ per strada,/ potrò contemplare in silenzio/ la piazza del paese che si fa bella;/ sconfitto/ confiderò alla dolce brezza/ la mia antica pena./ Dirò le mie parole al vento/ perché desiderare un amore/è parlare al vento./. L’alba nel suo intimo reca iscritta come un Dna vivo la mansione dell’attesa. Quante volte con il primo bagliore siamo usciti, ancora una volta. Rapinosi pirati, abbiamo cercato i porti inquieti dei fascinosi turbamenti. Quante volte abbiamo trovato la piazza del paese già viva e San Vito, il Santo Patrono, il Santo Bambino, che troneggiava sulla secolare colonna con le sue bandiere rosse. Ancora oggi, di notte, mi sveglio di soprassalto, mi sveglio col cuore in gola, esco di casa a raccattare amore. Corro da solo a piedi su una terra di cemento e vado, vado per strade, dove i galli cantano ed imbrogliano l’alba. L’alba, quando viene, è liberatoria, consolatoria. L’alba mattutina, qualche volta, porta i segni della notte, se essa è stata mansueta, e bagliori di rosso. I dolci fantasmi ormai nei ripostigli della memoria si sciolgono alla prima brezza. Baldanzoso del nuovo giorno, esco di casa a ritrovare tracce di me. Per le vie odo garbati schiamazzi, dolci fragori di parole, frasi confuse di lavoratori che s’apprestano a partire per le solite mete. La piazza si colora di nuvole leggere, che carezzano il cielo di tenue bianco celestino. Un amico mi chiama e mi offre il caffè nel bar del risveglio. Sono contento d’essere ancora vivo e di andare, mattiniero, incontro al mio destino. Una volta, ramingo ed errante, per la piazza di Lequile, avevo un piccolo taccuino e ho scritto alcuni versi, al sorgere dell’aurora, per il piccolo Federico:

Batte la campana

Ore fanciulle
nella piazza deserta.
L’orologio dell’alba
porta la voce
d’un bimbo.
Un’eco lontana
di ninnenanne.
Batte la campana
e nella piazza
di prima mattina
arriva un suono:
la voce di Federico,
che dondola
su una altalena di luna.
Per la via passa
un gattino.

L’alba ritorna sempre per nostra contentezza, per nostra beatitudine. Essa è scommessa, vittoria sullo scuro. È il giorno che comincia.

Marcello Buttazzo