a cura di Antonio G. Lupo –

Tracce del tempo nascosto nel cromatismo puro di Helmut Dirnaichner
mostra a cura di Antonio Giuseppe Lupo
in allestimento fino al 14 ottobre 2023
negli spazi della Galleria ARTPOETRY
a Lecce, in via Giuseppe Candido, 3

Orari di apertura 17.00/20.00
su prenotazione al n° 329.62497.13 – salvatoreluperto@gmail.com

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Dialogare con la natura… in un gioco di luci, di ombre, di sensazioni
Le installazioni materiche dell’artista bavarese Helmut Dirnaichner

Fin dagli inizi della sua attività artistica Helmut Dirnaichner comunica le sue potenzialità espressive, annullando la tradizionale cornice del quadro per affidarsi all’essenzialità della linea e del colore.

Ne tracciamo un profilo attraverso alcune sue interviste.

Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Monaco con Gunter Fruhtrunk, realizza un tipo di pittura anti-tradizionale e provocatoria che si sostanzia nella concretezza del segno e della materia.  In seguito, superando i confini tra pittura e scultura, utilizza un codice di elementi e materiali che sono in natura, sperimentando un ricercato cromatismo “ geologico e  vegetale” all’interno di forme archetipiche. I suoi strumenti di lavoro sono perciò attrezzi funzionali a  frantumare e sminuzzare  pietre e minerali nel mortaio; oltre a  martelli e  verghe, non mancano pale da forno, oppure contenitori e vasche, reti e setacci, per mescolare i pigmenti di colore con  cellulosa o fibre di jonote. Tutto ciò per raggrumare, coagulare e poi fissare con vera maestria dentro grandi o piccole sagome geometriche ( ovali, cerchi, rettangoli, quadrati, rombi, triangoli, ecc.) frammenti di terre, di ceneri d’ulivo, di sabbie e ciottoli di fiume, oppure sedimenti e depositi di minerali: dall’ossidiana alla malachite, dall’azzurrite al diaspro, dall’ematite ai cristalli, ecc.

Sia che lavori con terre rosse e argillose che con ceneri  grigie di paludi , la sua ricerca consiste nella trasformazione di elementi naturali, di rocce o minerali, in energia creativa e nella loro esaltazione estetica. Le sue opere, nella struttura metamorfica e nell’evidenza del pigmento, hanno perciò il fascino di un linguaggio che riporta alle origini, alle componenti primarie di qualsiasi combinazione di forme-segnali e di colore; il processo creativo dell’artista si realizza  nel ritrovare, poeticamente, la bellezza primigenia della natura.

É così che Dirnaichner  riesce a  rendere fruibili e godibili forme e materiali della natura, fissandone istanti di vita, non con l’intento di sottrarli al divenire dell’eternità, ma per ricordarcene la continua metamorfosi, «in una canzone della madre terra, con le sue correnti magnetiche e i suoi ritmi, che ci mette intimamente in contatto con la vita stessa e con la sua musicalità», scrive Patience Gray.

Nel racchiudere frammenti spazio-temporali in un foglio, senza sovrapposizione alcuna, l’artista ci accompagna dentro la mutevolezza e la provvisorietà dell’esistente, ammaliandoci con la meraviglia dei colori puri.

Le Interviste

L’opera di H. Dirnaichner inizia con la ricerca di elementi primari tratti dalla natura, di sedimenti connessi all’eterno ciclo della vita e della morte. Attinge al libro della natura e ai suoi colori, creando un proprio “libro” della natura, con codici e materiali di diversa provenienza che delineano il suo viaggio alla scoperta dell’essenziale e alla ricerca dei processi di trasformazione «attraverso, lontano, e fuori dallo spazio».

Il suo incontro con la terra salentina e con la solarità  mediterranea è stato certamente fecondo e quanto mai decisivo per le scelte artistiche ed esistenziali che ne sono derivate. 

«Sono venuto in Italia con una borsa di studio – ricorda Helmut – da Milano sono arrivato nel Salento alla ricerca della luce mediterranea. Mi sono poi fermato per gli amici che qui ho incontrato».

In occasione dello stage, tenuto presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce nel 2005, gli abbiamo  posto le seguenti domande:

Come è stata l’esperienza vissuta con gli studenti dell’Accademia leccese?

Gli studenti, interessati e disponibili, hanno lavorato intensamente ed hanno manifestato un grande entusiasmo. È stato piacevole entrare in contatto con loro per riflettere su alcune problematiche storico-artistiche ed estetiche, legate alla percezione e per poter realizzare dei lavori con materie ritrovate.

Su quali argomenti hai stimolato la loro riflessione? Come è stato organizzato il seminario di studio?

Non su un tema particolare. Ci siamo occupati di lavori non figurativi, del processo di astrazione, dell’astrattismo, della libertà dell’artista. Abbiamo preso in considerazione il fatto che nei regimi dittatoriali, quando sono venute a mancare le libertà espressive, sono state bandite e censurate le forme creative legate all’astratto. Ho voluto far riflettere i giovani su questo aspetto che mi sembra molto interessante. Dove esistono condizionamenti di qualsiasi tipo, non esiste l’arte. Oggi forse non ce ne rendiamo conto, poiché non è necessario difendere ed esaltare la libertà di esprimersi in un quadro astratto. Sessanta anni fa, gli artisti non figurativi erano presi per pazzi; una realtà storica che oggi ci appare inconcepibile. Ho voluto inoltre soffermarmi sulla percezione nella nostra società, dove tutto è uniforme. Le diversità non ci sono più, siamo immersi nell’omologazione. Quello che compriamo.. la musica che ascoltiamo, tutto ciò che ci circonda fa parte di un sistema a catena, caratterizzato dall’omogeneità. Si perdono le feste di paese e con esse il senso di continuità. Tutto è concentrato nel prodotto e nel consumo.

Trovo molto utile sensibilizzare a ciò che ha valore personale, a qualcosa che appartiene alla propria individualità, non a modelle precostruiti. Il nostro è un mondo  caratterizzato da scadenze sociali che ci porta a perdere il valore originario dell’umano, anch’esso scaduto. Bisogna “praticare” per poter rendere visibile il proprio modo di vedere le cose. Così ho proposto agli studenti di creare una nuova struttura con il materiale che trovano nel loro ambiente per far diventare significativo ciò che è poco appariscente.

Sulla base della considerazione che le materie non sono per sempre,  ho invitato i giovani a rendere visibile questo passaggio, questa transitorietà, eseguendo dei lavori che rendessero visibile il  passaggio del ricreare ciò che è distrutto o lasciato da parte.

A quali opere hai fatto riferimento?

Ad esempio alla cappella di Mark Rothko in Houston, Texas. Un logo di contemplazione e meditazione per i credenti di ogni fede, senza riferimento oggettuale, solo attraverso il colore. Ad Hamish Fulton, un artista che cammina sulle vette delle montagne per percepire la dimensione del cielo e della terra nello stesso tempo. A Duchamp, al Ready made. Lo scultore Tinguely ha costruito macchine che lavorano, fanno rumore senza effetto, senza funzione, un movimento meccanico che non serve a nulla. Il contrario del Futurismo. Ho fatto riferimento anche a Damien Hirst che ha realizzato un armadio, pieno di farmaci, perché le pillole sono il nuovo rosario della gente. Oggi sono questi gli “oggetti trovati”, mentre Duchamp ha lavorato con altri oggetti del suo tempo. I materiali  trovati hanno una vita passata, hanno subito un cambiamento nel tempo. Le forme, come  la natura, si trasformano. L’artista può intervenire sulla materia, prendere gli elementi della natura, creare una forma. Ad esempio con i ciottoli come ha fatto Richard Lang con la sua Land art.

Vengono in mente i tuoi lavori realizzati con conchiglie di mare, erbe di palude, terra di Puglia..

Nel Salento la natura è forte; se usi la terra, la materia diventa colore. I colori sono puri, naturali, non complementari, hanno una forza interiore.

Di quali materiali ti sei servito recentemente per realizzare le tue opere?

Il blu di lapislazzulo dell’Afghanistan, le terre del Messico, il cinabro in Spagna. L’azzurrite, l’argento e il rame provenienti da una cava dell’Austria.

Vorrei chiederti infine quali sono i tuoi ricordi delle mostre di Matera e di Casarano insieme a Norman Mommens?

Il segreto della nostra comunicazione artistica stava nell’intenderci senza parole, avendo lo stesso modo di appropriarci all’opera da eseguire, poiché ci importava non per se stessa, ma per ciò che da essa si irradiava.  Sia il palazzo d’Elia a Casarano, sia la Scaletta a Matera (un luogo adibito in passato a cappella) erano luoghi adatti all’esposizione dei nostri lavori, che entravano in corrispondenza con la storia, con lo spazio che le ospitava e con la loro materia. I lavori di Norman in pietra leccese e tufo, le mie terre e i miei minerali, come la malachite e la azzurrite, si riconoscevano negli affreschi dipinti sulle volte. In questo modo si è sviluppato tra noi un proficuo dialogo artistico, che ha finito col coinvolgere i visitatori. Le loro riflessioni sulle mie installazioni e sulle sculture di Norman portavano dibattito sull’arte contemporanea.

Durante il periodo della mostra infatti eravamo sempre presenti, riuscendo a creare un contatto con gli abitanti di quelle due città, dapprima improntato alla curiosità, poi sempre più familiare. Credo che molti presenti abbiano varcato in quella occasione per la prima volta, la soglia dell’incontro con le arti visive, grazie anche all’ottimo vino di Spigolizzi e all’Aglianico di Vulture di Matera, sempre offerto insieme ai taralli “.  

(da Il demiurgo della terra rossa, in Il tacco d’Italia, nov. 2008)