di Marcello Buttazzo –

Note stellate
si tuffano in un lago
al chiarore
della sera
quando gli zingari
si fermano con le loro carovane.
Da una candela accesa
colano
gocce di seta
e una fisarmonica
s’apre
ai cori dei grilli.
Tacciono le lacrime
quando spunta la luna.

La pianista Maria Campeggio ha una passione spiccata per la scrittura e per la poesia. La parola è il medium principe per comunicare stati d’animo e sentimenti, uno strumento prediletto per allacciare intensi rapporti, per manifestare la propria interiorità, che naviga sul vascello del cuore, dell’amore, del sogno. L’autrice nella sua nuova raccolta “E di nuovo venne l’alba” (edita da storiedilibri.com) esprime con pazienza la sua visione dell’esistenza, fa balenare i suoi vasti universi interiori, offre squarci d’azzurro. La sua è scrittura del reale, della vita quotidiana, dei paesaggi, delle cose essenziali, con ampie notazioni di onirico. L’alba è il tempo dell’attesa, dopo l’incedere della lunga e interminabile notte. Ma dopo il nero scuro, l’aurora sorgiva si disvela e ritorna con il suo carico di promesse e di speranze. Maria Campeggio è molto legata all’alternarsi delle stagioni, allo scorrere e al fluire del tempo. Così versi sono dedicati alla notte di San Lorenzo, quando il creato si riempie di stelle, le angurie si spaccano mostrando il rosso succoso come labbra tumide di passione. Oppure un canto accorato viene redatto per i santi morti, per San Martino, quando il giorno intona balli dionisiaci appesi alle viti. A Pasqua, sulle vie d’asfalto irrorate di bagni di luna cade Cristo morente. Settembre rifiuta la brace e rincorre le castagne, spacca il tempo che profuma il biancospino. A Natale, la poetessa ha ricordi antichi come le arance e i profumi di muschio, i fazzoletti della nonna sulla testa grigia e i pastori inginocchiati nel presepe. Una cifra precipua che caratterizza i versi di “E di nuovo venne l’alba” è l’eterno ritorno della mansione del ricordo. Come quando, Maria rammenta il tempo fanciullo, e le brillano gli occhi. A volte, la rimembranza è gioiosa; altre volte, è travagliosa. E possono essere anche dolenti i giorni del passato con note incastrate fra le dita. La reminiscenza può essere quella di un amore lontano, racchiuso in un forziere dove tesoro più prezioso non si potrebbe trovare. E, comunque, la ricordanza è una stagione da respirare al presente, con il rosso sangue dell’anima aperta e morbida, ben disposta ad accogliere. In “E di nuovo venne l’alba” campeggia nitida con la sua luce viva la terra marrone del Salento, oltre alle narrazioni liriche e bucoliche di vita contadina. Otranto tra le luci madreperlacee e le linee di colore sull’acqua sfodera echi d’un pianto secolare. Stelle di gabbiani ridondanti sullo Jonio. Parabita dona gli scenari tipici dei paesi del Sud, che tutti amiamo e conosciamo. L’aria è frizzante in piazza, il celeste si posa sul campanile della Basilica dove si mormorano salmi alla Vergine del monolito che vide le ginocchia dei buoi sui selciati arati. A Parabita, nel gorgoglio della fontana, una donna si specchia in passate primavere. Maria Campeggio è una poetessa molto accorta all’esistenza degli ultimi, dei diseredati, tanto che sostiene che per i barboni una sola parola può essere poesia nel loro universo. “E di nuovo venne l’aurora” è un canto d’amore, per l’esistenza, per la terra natia, per la vita. È, inoltre, un canto d’amore sensuale, che s’appalesa pienamente in alcuni versi della raccolta. Tanto che la poetessa vorrebbe come cascata d’argento accogliere l’amato sui seni nudi e sul suo corpo ricamare foglie nude di pioggia. “E di nuovo venne l’alba” è anche canto dell’assenza, della mancanza, un madrigale di parole dedicate a persone che non ci sono più. La poetessa, a volte, ha un sussulto, un brivido sulla pelle. È vero, c’è chi manca alla nostra vita, ma la poesia può aiutare a rendere vivida l’assenza- presenza. Nella silloge sono molto interessanti le figurazioni naturali, frammiste a interrogazioni interiori, come quando la poetessa invita l’amato ad aprire le braccia fra il nespolo e il mandarino e a sussurrare cose mai udite da orecchio umano. In “E di nuovo venne l’alba”, Maria Campeggio, sempre ancorata strettamente alla realtà, s’apre al sogno, alla possibilità di rappresentare l’essenza in modo immaginifico. L’autrice getta un ponte conoscitivo fra il suo sé e la vita degli altri uomini e donne. È questo, forse, è il più corposo insegnamento morale della poesia.


Dietro i confini
delle case
si tuffa il sole
tramontando l’oro rosseggiante.
Le preghiere
decorano
le guglie delle chiese
e i campanili
sfoggiano rintocchi.

Marcello Buttazzo