di Anna Rita Merico

Maria Grazia Palazzo
Stanza d’anima
con una nota di Elio Coriano
Collettiva ed. 2022

forse ho sognato che si viveva in una stanza d’anima[1]

sono qui a preservare posti vuoti su
tavola imbandita, stanza d’anima
a legare fiori alla forchetta
farne vino, respiro, fiato.
[2]

La prima corda da recidere per poter essere, per poter essere in scrittura, anche. Recidere l’intreccio, fatica della separazione, dolore santo dell’ individuazione. Recidere per andare. Recidere per dir-si. Quasi inizio silloge. Recidere: apertura al mondo. Recidere, filo conduttore del potere di sentire. Urto fecondo che non protegge però, da stati d’assenza, dalla ferita, dalle segrete tessiture, dalle apnee nella realtà.

Quella di Maria Grazia Palazzo è realtà che si colloca lungo linee di confine. Sono le linee che cercano il punto della prospettiva centrale in cui posizionarsi alla ricerca di quel sottile passaggio che narra nascita, divenire, trascendimento. Sono linee che indicano intima convivenza di vita morte. E’ vita morte quel Suo frequentare separazioni e scissioni che generano ma che, pure, non consentono emersione facile in una realtà in cui l’incontro è percepito come possibilità autentica dell’essere dinanzi alle crisi multiple della contemporaneità.

I versi alludono al desiderio tutto femminile di allontanamento da un sapere che ha prediletto la stanza delle separazioni, delle specializzazioni. L’Autrice anela all’armonia contraria a quell’indicibile sconcerto nato agli albori della definizione del logos. L’intento di ridere di sé e della parola si incista tutto nel desiderio di poter ri-pensare il simbolico a partire da una visione in grado di dire la propria alterità, il proprio senso e significato del mondo, della parola.

le madri che non ho avuto,
pulsanti crisalidi luminose
nelle notti di paura e di gelo
come danzatrici del ventre,
vocali aperte da voci senza fine
rilasciano olio per le ferite,
balsamo per l’arsura d’amore,
guerriere dai lunghi capelli
annodati a denti di lupo,
cavalcano albe, portano
ai fianchi ceste d’argento e oro
nottetempo, su corde sottili
a incorniciare giorni feriali,
rendere onore ai morti,
tenere a bada gli orchi
[3]

Le madri cercate, le madri mancate, le madri assenti: è una realtà che si innerva nella carne della parola mostrandone il suo desiderio di immanenza. E’ un poetare che punge e trema, è un poetare che lascia cedere maschere, è un poetare amico dello sconfinamento. Un poetare che conosce il significato profondo della trasformazione

…siamo la muta, scossa dal maestrale
di un dolore domestico tenuto
troppo sotto vigilanza, o il
bicchiere rotto e capovolto…
[4]

Nulla è fuori dal verso di Maria Grazia: passioni, colori, apparizioni, segni, dolori, stazioni, ferite… un vocabolario di parole per stanze del sentire. Ogni sentire viene pizzicato come corda di violino, sviscerato, ammaliato, rammemorato. Nulla ha il sapore della perdita: ogni stanza si dice con forza e autenticità. L’Autrice conosce il valore di quanto nel dirsi crea senso e fonda verità del/nel sentire e lo dice, lo indica lasciando sovrano quel dio dell’incanto che trasmuta in poesia tante pieghe dell’umano andare.

Il tempo trascorso s’affaccia morbido porta memorie che si slabbrano nell’intima contradditorietà che cerca conciliazione di passato e presente, filo che lega e tiene unito radicando nella narrazione lirica di sé. Maria Grazia indica quel leggero scavo che ruota intorno all’incontro, quella lievità nella quale si giocano lontananze e vicinanze e il cercarsi, contemporaneamente, lascia segni e indica assenze. L’acqua alta a Venezia inonda e svuota intenti, lava eternità e fissa presente. La dimensione del tempo, nell’intera silloge è data dall’orologio dell’anima che rintocca la clandestinità di ogni cammino che cerca nella ricerca del proprio segno che rimargina lacerazioni.

…del tempo trascorso senza poter muovere un dito,
in una lontananza che era   segno già scritto
o latenza di destino preciso,   in fondo ho solo
voluto vedere,   sono rimasta di stanza in una
transumanza, in un esercizio visivo, contiguo
tardivo…
[5]

Preziosa la chiusa di Elio Coriano: Il bisturi e la margherita. Una nota in poesia su cosa evochi l’inafferrabile della poesia: “tu a fare sacrifici lei a pretenderli”[6] afferma Coriano lasciando che la sua nota poetica voli con ampiezza d’aquila su versi e gesto del poetare. Una chiusa sul senso del poetare che incontra ed intrama l’andare in versi dell’Autrice.


[1] Maria Grazia Palazzo, Stanza d’anima, Collettiva ed. 2022, pg 35

[2] ivi pg 20

[3] ivi pg 33

[4] ivi pg 41

[5] ivi pg 61

[6] ivi pg 75