di Anna Rita Merico –

Vanni Schiavoni
Quaderno croato
Fallone Editore, 2020

“…Sempre spinti a improvvisare/condensiamo in strappi la memoria…”[1]

Minuto quaderno per un’elegante plaquette di dodici liriche. Un leggero andare in cui si annidano sguardi e gesti agiti nei punti d’incontro tra stupori e memorie, immagini e rimorsi, attese e visioni di Terre scolpite dall’antico di una atavica spiritualità. Quaderno di geografia dell’anima. Mappe in cui foreste, rocce, cespugli, venti, isole, laghi, cime, fiumi, boschi punteggiano smarrimenti e ritrovamenti del sentire profondo.

Le memorie tornano e travalicano storia individuale e cantano il lontano, cantano ciò che è memoria per la specie. Memoria forte dinanzi agli echi di massacri e lutti e lotte e guerre. La percezione del dolore è spessa e si esprime nel velo di uno sguardo che indica, che allude, che copre il grido che corre su da viscere inesplorate, laghi di nero da cui emerge l’immobile, lo statico, il fotogramma che ferma quanto ha perso movimento per difesa ed economia di Vita.

Ogni cosa come noi viene da altrove/le colonne le sfingi le croci/le banconote nelle tasche, le bifore e il leone/i campanili conficcati come picche in attesa di teste/il furore di maestranze impiegate come fari da falene/e Venezia in filigrana./Si allontanano sui barconi nell’acqua che scricchiola/poiché il nemico ottomano è perduto/coi suoi macellai dietro i baffoni spezzati/e nel fondo scolora Sibenik sulla malta silenziosa…/[2]

E’ viaggio all’interno di uno scavo in cui pietre, forme, parole formano stanza e sito di sedimentazioni. E’ grido per distruzioni di dentro, è urlo per violazioni della storia, è lamento per cecità umana. Nelle pagine di Vanni è come guardare tutto attraverso una filigrana, un bisso sottile che dona la giusta distanza oltre le ombre di un baratto che ricorda l’andare offrendo libagioni per il viatico lungo gli impervi sentieri in cui non è solo viaggio di distanze che avviene ma ricucitura di incontri possibili con parti di sé che chiedono luce. Schegge di un antico. E’ un antico che si annida oltre ogni possibile confine. E’ la registrazione di confini che cercano linea nel disperato di un nuovo che si perde nel fumo di un presente urlante la sparizione, la bussola, la stella.

“Non spiega molto dei nodi marinari/l’avvicendarsi dei tramonti a largo di Split/quando il sole si piega all’orizzonte tenendosi per le dita/senza dare punti di decisione./Tutto si specchia come in un contagio/a cominciare dal mio cognome/per finire col tuo profilo, nonostante sia spaesante/la sbilanciata conoscenza dei fatti./Non c’è la violenza che speravo/o qualcosa che chiamiamo per abitudine straniero…/[3]

Il periplo punteggiato dai luoghi chiude il proprio arco a Dubrovnik. Ogni sentore è stato risucchiato in occhi vogliosi di comprensione. Nulla è rimasto intatto. Ogni truciolo è stato bevuto. Eppure, nell’andare, nulla è stato toccato. Tutto segregato nelle spire di una sopraintendenza dell’anima che ha vietato, durante l’andare, alle mani di allungarsi su di una realtà che mostra il fumo e la cenere di ciò che era. E’ poesia, quella di Vanni, che gronda storia da ogni anfratto di parola attaccata con sapienza alla pagina.

Gradini, salite, affacci racchiudono vedute del mondo intero. L’intero planisfero partecipa della distruzione serba. Non è più fatto localizzato ma urlo di libertà che lascia interdetti e dice l’etica dell’autodeterminazione attraverso i bisbigli che sgusciano via dai monti dinanzi alle rapine, alle ossa che fremono.

Dodici testi poetici, dodici testi per un andare sullo stradario dell’anima, dodici testi per un girolento sulle cime e le vertigini del pensiero della convivenza impossibile allorchè si scatenano le profondità di ataviche ragioni.

“…Ti cerco nello sguardo un segno/del mio stesso smarrimento o l’avanguardia/di un sentire non ancora collaudato:/a quale forma diresti uguale tutto questo/ o almeno simile a qualcosa di già vissuto?…/[4]

Un’invisibile fisica della terra. Un’impossibilità a tenere separati i morti dai vivi. Un soldato in missione. Un difendersi con l’occhio della poesia per evitare che la pelle si laceri muta dinanzi al paesaggio dell’impotenza umana. Eppure, dinanzi a questa impotenza, Vanni chiude il cerchio rammemorandoci che la parola poetica può sovrastare la politica e darci possibilità di sguardo, di tenuta, di radicamento nell’umano andare.

“…Già tutto svanisce/nel tuo tacere ogni attorno diventa chiacchere/che si riversano in ciuffi tremolanti e tutto/abbiamo messo nelle ossa come fossero tasche./[5]

Un minuto quaderno per una geografia dell’anima. Un quaderno con la copertina nera come quelli di Chatwin. Appunti di viaggio e soste poetiche tra le rotte di un andare che vuole senso al di là di ogni ragione della storia. Bella lezione, quella di Vanni, sulla poetica dello sguardo.


[1] Vanni Schiavoni, Quaderno croato, Fallone ed. 2020, pg 20

[2] ivi pg 25

[3] ivi pg 33

[4] ivi pg 17

[5] ivi pg 36