di Marcello Buttazzo –

La vita s’arricchisce di vitale linfa nel rapporto serrato con l’ordinarietà, con il mondo dell’esperienza, con il riscontro quotidiano, perennemente bordeggiato ai margini, alle periferie. La vita di tutti i giorni non è facile, non è difficile: è solo un cammino intrapreso e praticato, che ci condurrà forse in un altrove. Il tempo è scandito dal tamtam dell’anima, dai fracassi talvolta, da una assordante musica spaccatimpani anche, da attimi silenziosi di ritiro intimo. Nei momenti di ripiegamento mi fanno compagnia le muse predilette. Le muse sono tutte agognate, amate, dalla prima all’ultima. Ricordo le parole delle muse proferite per mia beatitudine. Conservo la grazia e la bellezza di ciascuna. Conservo e indosso ancora le camicie delle muse. Le muse possono essere donne in carne ed ossa, veramente esistenti; ma, a volte, possono essere figure trasognate e immaginifiche, proiezioni fantasmagoriche. Come un sogno ad occhi aperti. Io ho sempre amato e continuo ad amare le storie pellegrine, spese ai margini di questa società del benessere. Ho sempre amato e continuo ad amare i vissuti intricati da sbrogliare come matasse. E la vita, la vita piccina, francescana come filo d’erba, come le foglie. La vita dimessa, sconfitta, sdrucita. Ho sempre amato e continuo ad amare l’ebbrezza degli uomini semplici, delle donne comuni, che popolano questo mondo denso di contraddizioni. Non disdegno il dolore, che non è mai un lago in cui stagnare, ma è un trampolino da cui ripartire. E amo, amo davvero la ferita, che è viva, pulsante di accadimenti, di vissuti. La ferita va ricucita con ago d’amore, vezzeggiata come un bimbo malato. Come viso di madre va carezzata, coccolata. La ferita è la scoperta del mondo. Le muse sono l’eternoritornante mestiere di vivere. Non so adesso se sto evocando una donna reale o “solo” una creazione della mia mente. Come lampo ritorna il nuovo giorno, riapre le ferite, l’ancestrale tormento d’esistere, che appartiene a tutta l’umanità. Come un sogno, ritorni tu. Le tue carezzevoli parole sono una mantiglia di rosso, di rosso vivido, che m’avvolge. Di là del frastuono, di là del rumore e dell’ineludibile fragore di questo triste tempo, mi giunge l’eco della tua voce, che è canto, elegia, madrigale d’amore. Arrivi tu e sconvolgi le ore, fai del momento uno sciabordio di onde, uno scompiglio. Questa stagione grama ha il sole dei tuoi occhi, il trasalimento del tuo respiro, il fiato dei tuoi pensieri. Questo tempo è ferito da centomila evenienze, da guerre ferine, da impreveduti malcontenti. Questo tempo langue e piange tutte le lacrime del mondo. Ma c’è uno spazio d’attesa, che è vibrazione e fremito. C’è un disvelamento del sogno, che sono i tuoi occhi di cerva, lucore, meraviglia, stupore, parapiglia. I tuoi occhi incantano giornonotte i passanti. I tuoi occhi fanno fiorire ancora l’aurora nel giardino francescano dei limoni. E quanto mare nei tuoi occhi. I marosi tempestosi del Sud, oceani serafici d’una pace meditata nei tuoi occhi. Tu hai respirato il travaglio, e ne hai fatto ipotenuse di sole. Tu conosci le lacrime, le sai consolare. Conosci la vita, la sai amare. Nei tuoi occhi le impavide aurore dei giorni dell’avvenire. Ogni giorno ti ritrovo fra le zolle sanguigne della terra natia, fra i nivei germogli del mandorlo a febbraio, fra i bagliori improvvisi dell’aurora selvaggia. Ti ritrovo in ciò che agogno e non conosco, nei viaggi disperati di poveri migranti. Sul barchetto desolato quanta sofferenza. Sul barchetto affranto, tutto lo scombussolamento del mondo. Io ti trovo e ti ritrovo sempre negli occhi verdi di mia madre, il mare più ambito da navigare. Ti trovo e ti ritrovo sempre nei pensieri poderosi di donne virtuose, muse scarmigliate, vestali assennate, maree tumultuose. Tu e loro fate nascere le mattine, fate tornare barbagliante il verecondo raggio di primavera. Tu e loro siete il tempo che passa e ciò che resta. Penso alla musa e so che è grata al mondo, alla vita, alla Natura. Lei sommuove l’onda, fa trascorrere la noia. Lei è ramo d’ulivo, fronda di limone, viso di pesca. Lei è quel che è e non passa. È la bellezza che squassa.

Stamane
il cielo
s’è svegliato presto
e aveva i tuoi occhi di fiamma
le tue guance di pesca
la tendenza dei tuoi denti di perla.
Lapislazzulo il cielo,
inchiostro celeste
a far svolazzare
desideri attese passioni.
T’ho vista
per strada
nello sguardo d’una passante.
Eri fiera
coi tuoi ragazzi,
i tuoi allievi.
Con loro
vagavi anche tu
erravi alla ricerca
della stella dei pastori,
della buona novella.
Stamane t’ho veduta davvero,
seminavi
embrioni di speranza,
con la tua dolce parola
semi d’amore.
Ad imbiancare di stupore
il mandorlo di febbraio.

                         Marcello Buttazzo