di Anna Rita Merico –

“…

Farsi vuoto come naturale terra bica

ammonticchiata dopo la piova.

Scorza d’uova. Senso. Viola.”1

Difficile slegare impegno culturale, politico e poetico in Giuseppe Goffredo. Un solo nodo che parla con più bocche. Un solo vento che soffia con più mani. Un amore profondo per il Mediterraneo. Ritrovo tra le pagine di appunti, testi, note, programmi una copia di Canto e oblio. Inizio a scorrerne pagine e ogni tempo si annicchia tra le pieghe di versi.

Sei sezioni urlate, accarezzate, districate, mostrate, desiderate, cantate.

Prima sezione “Ascolta”: vanità, passeri, frulli, api, nuvola, serpe, crepuscoli. Una folla chiamata a sé a cui chiedere ascolto e con cui stare nell’ascolto. Il corpo, chiave di lettura, mondo di curve, sentieri, punti. L’amore come presenza acuta, come potere, come forza tellurica, come luogo di generazione del mondo fatto forma, universo. Amore come antica forma di linguaggio sapienziale che genera chiedendo rispecchiamento e desiderando scambio. La natura attraversata: onda di corpo aperto, turbinio di vorticosa tensione verso l’assoluto. Un assoluto detto dentro e attraverso il corpo. L’amore è energia che sana, potenza altisonante che veglia sul dolore rendendolo umano, possibile da vivere.

La solitudine albeggia infilandosi tra pieghe di giorni nuovi. Solitudini mute e fonde. Ascolta: fondo venire del tempo nelle pieghe intime dell’esistenza.

“La ferita è annerita e il vuoto profondo

stanotte ha gridato. Ho avuto paura di me

ma so quanto quel grido è stato sentito

forse non ero neppure dentro a quel grido…”2

Seconda sezione “Pagine di cronaca vera”: il corpo è più vicino, reclama visione. Il tempo resta assorto in un dinamismo di passi circolari. Il verso si cesella arrotolandosi in un rivolo liquido che detta confine alla parola. Discendere nel cristallino di luci dell’anima. E’ cronaca vera quella che, alla spicciolata, si raggruma sotto gesti usuali e consunti dall’uso. Goffredo stana il lento lasciandolo sedimentare in immagini. Tutto si concentra in pochi segni densi.

“…

La luna incontro veniva

dall’altra parte del chiaro

con una barca passava

pellegrina vaga del pensiero.

…”3

Terza sezione “Elogio del grido”: torna, acuto, il grido. E’ grido disperato, è grido d’amore, è grido di ritorno all’umano sentire, è grido d’animale ferito, è grido che giunge da cosmi e recessi, è volo che oltrepassa, è origami e taglio in cui l’anima si perde. E’ risucchio di bene e male, è movimento in cui ogni opposto s’annulla. Canto e oblio svela la intima trama, la sua ricerca. E’ ricerca d’anima che scrive nel solco del proprio potersi dire, è desiderio di tenersi lasciando segno di sé.

“…

Dove sono? Infinita invisibile fibula.

Ogni ramo. Ogni punto. Ogni germoglio.

Tutto quel verde di festa ai lati che apre

le sue braccia commosso a ricevere

una goccia di pioggia. Nei colori. Nel sole.”4

E’ sgusciare doloroso e pieno questo grido che precede il Canto e l’oblio. Qui l’incontro giunge a pienezza, qui mostra forza ma un attimo, solo un attimo dopo, mostra la fragilità –tutta- dell’anima che, per essere, per dirsi necessita appoggio nei paesaggi del volto e dello sguardo di donna. Ma, chi è che parla? Donna o Terra? Sfilano i grani del mito. Coppie taurine alate, ferite delle mani che mostrano le ferite della terra, frutti gravidi di maturo che si offrono, canti e rinascite mentre, il grido del mondo diviene nuovo. Fragilità e forza si narrano con un solo gesto. Chi nasce: il mondo o l’umano? La connessione rende un tutt’uno di potente visione. La poesia lega gli intenti.

“…Aiutami a stare al mondo. Aiutami a non spegnere il sogno…

Vorrei essere solo un tuo sogno.

Vorrei in quel sogno sentirmi tua scrittura.

Scrivimi. Scrivimi. Dammi la tua lingua.

Dammi la tua mano.

Sono il tuo inchiostro rosso…”5

E’ silloge sulla nascita, è silloge sull’origine, è silloge che va a scavare dietro ciò che si mostra, è silloge che nutre gli spazi di ciò che viene. E’ E’ E’

“…

Cosa non si è narrato

fra l’aprile e il maggio.

Nessuna cosa dopo

è stata come prima

e niente si era mai visto

fino a infiammare gli occhi

di papaveri e uccelli

di notte innamorati.

Vieni che ti racconto

allunga la tua mano

curvati come palma

fino a terra a cercarmi

 dai piedi alla chioma.

…”6

Nello scorrere dei versi, la forza della parola va srotolandosi e compare la possibilità di pensare ad un contemporaneo “dolce stil novo” complicato dalla presenza dell’attaccamento viscerale tra uomo e natura, un uomo-natura dialoganti, un femminile sempre tirato al centro dello sforzo di vedere-sentire il vivo della parola e del mondo. Un amore-motore che dipana immagini ricollocando il sentire nel dentro del corpo. Corpo e intelligenza del sentire che avviene attraverso amore. Amore ossia, quell’attingere ad antica sapienza sacerdotale lì dove ogni confine è posto prima del ciò che separa. Quello di cui Goffredo dice, in questa silloge, è ciò che giace nell’intero della cellula prima che essa si spacchi. E’ il primordiale, è l’amore del dio che forgia fango di forme e villi d’umano. Chi parla? E’ uomo o donna? E’ il regno dell’informe che sposta, doloroso, alla ricerca di forma e di possibile tratto identitario.

“…

Vedi poeta sono lunga. Infinita dalla coda alla testa.

Ho più spire incandescenti nel mio corpo.

Lasciami andare.

Nessun sole era così illuminato.

Sentii i suoi vagiti sotto di me.

Le punte sue elicoidali spuntarsi man mano

come un bastone spezzato nell’acqua.

Vattene gli dissi. Mai chiaro è il tutto dentro me.

Vattene poeta.

…”7

La poesia, compare e ricompare come bastone cui poggiare passo e intento, sfondo che nutre l’andare. Invocata, scacciata mai tradita, sempre attesa come lucore che tiene al passo nel sentiero. La poesia, colei che consente di togliere provvisorietà alla nascita trasformandola in origine. La poesia, colei che rimesta il luogo rendendolo meno oscillante e solido alla nascita, quella voluta, quella decisa, quella pensata. Lasciare uscire fuori il canto, consentirgli di essere è ciò che è possibile alla poesia nel momento in cui, essa, svela origine e luogo. Ogni nascita è verso. Ogni verso è nascita.

“…

Io sono quella luce che passa.

Io sono le sue mille pieghe.

Io sono la stessa fuga in amore

… Mi vedrai implorarti. Mi vedrai disprezzarti.

Mio amore poeta. Non avere paura della mia

rugiada che luccica

…. Finalmente la mano incantata d’inchiostri.”8

E’ un dolce stil novo che non scende negl’inferi ma ascende ad un’elevazione dalla materia. Un essere nel sogno che rende visione ogni realtà perché lascia che la visionarietà, intrisa di mediterraneo sentire, coli nel pensiero poetante. In Essere vorrei9 lo scorrere del verso sembra un ritorno a Cecco Angiolieri solo che la maledizione e la rabbia si trasformano in mutazione benigna che chiede di avvolgere e prendere e attraversare e bucare ogni poro per dirsi in trasparenza leggera e desiderante.

“…

Essere vorrei aria

per farmi respirare

profumo di vento           

nei tuoi polmoni

dentro dentro nave

di ogni vena sentirti

nella mano che carezzi

i miei porti aperti

che tu vieni e vieni

in amore in amore in amore.”10

Canto invernale torna a ridiscendere in dimensione maggiormente terrena “… mentre guido e scrivo per proteggerti dal male.”11 Gli abiti sono zuppi di folla e andarsene è cantare il desiderio di un mondo altro. Il dialogo mostra i suoi epigoni e la ferita del costato mostra l’incapacità di amare. La dimensione del contemporaneo dolce stil novo non conosce l’eternità di ciò che si colloca, puro, fuori dal tempo. Questo dolce stil novo dice l’arco definito di un tempo esatto in cui alla nascita, alla meraviglia segue il disincanta mento nel quale una telefonata sarà per sempre attesa e la ferita, riconosciuta, parla. Una tensione troppo in tensione esplode in mille minuscole schegge, deflagrando parola. Eppure, di nuovo, tutto torna ad essere vicino. Ognuno mangia il suo pane e “…per un anno piovono/ pesci e uccelli su tutto/ ciò che di raro c’è/ grazie alla carne del dio.”12

Tutto rientra come dopo una notte in cui l’andare oltre ha segnato passo e intento. Tutto rientra e, dalla visione tutto scivola, ricompattandosi, nella realtà. Realtà minuta in cui ogni grano parla.

“…

Qui. Qui. Qui. Col nocciolo.

Le canne. Il fico. Addosso ai muri.

Fiorito, Con l’erba. L’erba.

Sogna sotto la radice. Il fiore

nel cemento odora. Ama

nella pena dimenticata lumaca

vuota

infinita.”13

Nulla, nella poesia di Giuseppe Goffredo che non parli di Sud, di Mediterraneo, di voci lontane e di affondi nel mito eppure, queste pagine, sanno far cantare la contemporaneità fuori da ogni sperimentalismo o cascame nella crisi. E’ un seguire l’andamento del canto della vita piantati nell’alveo della poesia, nella narrazione di sé in relazione con l’essenziale di ciò che è mondo, dentro-fuori del verso.

Anna Rita Merico

***

1 Giuseppe Goffredo, Canto e oblio, Poiesis ed. 2010, pg 18
2. Ivi pg. 15
3. Ivi pg. 30
4. Ivi pg. 42
5. Ivi pg. 52
6. Ivi pg. 55
7. Ivi pg. 58
8. Ivi pg. 60/61
9. Ivi pg.62
10. Ivi pg. 63
11. Ivi pg. 71
12. Ivi pg. 81
13. Ivi pg. 87