APPUNTI SULL’ESPERIENZA DEL NON-SAPERE*
di Vittorino Curci –
Principio dell’esperienza interiore: uscire tramite un progetto dal campo del progetto.
La poesia non è che una devastazione riparatrice.
La poesia conduce dal noto all’ignoto.
Georges Bataille
Quante cose non sappiamo di noi. Non è forse vero? Io per esempio da bambino disegnavo moltissimo e non avevo dubbi che da grande sarei diventato un pittore. Non è stato così, a quanto pare. La poesia poco per volta si è insinuata nella mia vita fino a soggiogarmi e non capisco come abbia fatto.
Certo, ancora oggi, quasi tutti i giorni imbratto tele e carte. È una cosa che faccio per me. Forse per accontentare il bambino che sono stato. Per di più sono un sassofonista di musica improvvisata, un’esperienza per me irrinunciabile, convinto come sono che la musica, e in modo particolare la musica improvvisata, metta continuamente in gioco la nostra capacità di relazionarci con gli altri.
Dipingere e suonare sono forse le exit strategies che ho inconsciamente pianificato per affrontare i pericoli di una totale sottomissione al demone della poesia. Un modo, se vogliamo, per ribellarmi a me stesso e anche a un destino che non ho scelto. Quando dico che ne ha uccisi più la poesia che la bomba atomica, molti pensano che scherzi e invece è la verità. Non dimentichiamoci delle vite di Marina Cvetaeva, Cesare Pavese, Antonia Pozzi, Lorenzo Calogero, Sylvia Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli, Nadia Campana, Beppe Salvia, Alejandra Pizarnik, Remo Pagnanelli e tantissimi altri e altre in ogni parte del mondo.
Comunque, sono stato invitato qui oggi per raccontare qualcosa della mia esperienza.
Bene. Comincio col dire che negli ultimi decenni la domanda che mi è stata rivolta con maggiore frequenza è stata: che cos’è la poesia? Strano, vero? Mai nessuno che chieda a un medico che cos’è la medicina, o a un architetto che cos’è l’architettura. E allora mi chiedo: perché viene fatta sempre questa domanda ai poeti? La riposta più sensata secondo me è che la maggior parte delle persone pensa che la poesia abbia un che di misterioso e indecifrabile; ed essendo ciò innegabilmente vero, oggi voglio parlare proprio di questo.
Alcuni anni fa ho letto diversi libri sulla teoria dei quanti e credo di aver capito che, rispetto al determinismo della fisica classica, la fisica quantistica è in grado di far funzionare le cose ma non riesce a darne una spiegazione. Del resto Schrödinger disse che “l’unica certezza che la fisica quantistica ti lascia è il dubbio che ti crea”. E Bohr, in modo ancora più drastico: “Chi non è traumatizzato dalla meccanica quantistica sicuramente non l’ha capita”.
Ragionando tra me e me su queste cose mi sono fatto l’idea che la teoria dei quanti potrebbe offrirci un modello per capire qualcosa di noi e del nostro essere al mondo. Penso in particolare al fatto che, allo stato attuale, per quanto riguarda l’origine della vita sulla Terra, abbiamo soltanto delle ipotesi. Nulla di certo, quindi. Se è vero che dal punto di vista scientifico possiamo escludere la veridicità del racconto biblico, è altrettanto vero che tutte le teorie sull’origine della vita presentano delle lacune che non ci permettono di venire a capo del problema (almeno, dobbiamo supporre, fino a quando la scienza non riuscirà a dimostrare con prove inconfutabili in che modo, a partire dal cosiddetto “brodo primordiale”, si formarono le molecole organiche, contenenti cioè carbonio, e poi le prime cellule viventi). Questo vuol dire che alla prova dei fatti ogni nostro discorso – anche quello che sto facendo io in questo momento – è fondato sul nulla. Ci definiamo esseri viventi ma non sappiamo niente della vita. E se vogliamo chiamare le cose con il loro giusto nome, dobbiamo riconoscere che tutta la nostra esistenza è avvolta in un mistero.
Che cos’è un mistero? In senso figurato è tutto ciò che non si può intendere, che è oscuro, inspiegabile, impenetrabile. Piaccia o no, prima di ogni altra cosa dobbiamo prendere atto, e con molta fatica accettare, che non solo siamo avvolti dal mistero, ma che noi stessi siamo un mistero.
Questa mia considerazione può anche sembrare stupida, e secondo me più sembra stupida più diventa seria, drammaticamente seria, perché ci fa capire quanto vi è di rimosso nelle nostre vite. Qui, su questo Pianeta facciamo tutto quello vogliamo – e più che mai oggi, grazie ai progressi di una tecnica efficientissima e inarrestabile – ma non siamo in grado di rispondere alla domanda fondamentale, alla sola domanda che dà senso a tutte le altre domande che possiamo farci, e cioè: chi siamo?
Diciamolo pure: quando parliamo di queste cose sentiamo franare la terra sotto i nostri piedi. Prendiamolo però per un buon segno e andiamo avanti col nostro discorso.
Un mistero, è bene precisarlo, non è un segreto. Silvia Bre – che per la collana “Le parole della poesia” di Vallecchi ha scelto di scrivere un saggio proprio sulla parola Mistero – lo spiega benissimo: “Un segreto si mantiene, si confessa, si tradisce”, dice. Tutte azioni, cioè, incompatibili con il mistero che è sempre chiuso, sigillato in se stesso e fasciato da un grande silenzio. Ma se il silenzio del segreto è un silenzio che copre e segue la parola, il silenzio del mistero è un silenzio che rivela e precede la parola. Prendere coscienza di questo è importante e tuttavia non basta a rimuovere gli ostacoli che abbiamo ancora davanti perché, come afferma un filosofo e teologo russo citato da Silvia Bre, Pavel Evdokimov (1901-1970), “non è la coscienza a chiarire il mistero. È il mistero a illuminare la coscienza”.
Se decidiamo di prendere per vera questa affermazione – possiamo farlo o non farlo, dipende da quanto coraggio abbiamo nell’avventurarci su questo terreno – la situazione si complica maggiormente perché, essendo il mistero inaccessibile al sapere, non abbiamo alcuna possibilità di rapportarci ad esso. Che fare quindi?
Nelle “Conferenze sul non-sapere”, che tenne al Collège philosophique di Parigi fra il 1953 e il 1954, Georges Bataille esprime tutto il suo disagio e, in definitiva, la sua disperazione per “l’inutilità di una vita la cui utilità mi ha deluso”, dice, e per il fatto di vivere in un mondo “profondamente inaccessibile” in cui “solo il silenzio può esprimere quello che si ha da dire”. Nel contempo, però, Bataille constata un fatto, e cioè che sapere di non sapere “aiuta molto” in quanto il non-sapere non è un fatto legato alla conoscenza (se così fosse sarebbe a tutti gli effetti un sapere) ma all’esperienza: “Penso sia impossibile parlare del non-sapere a prescindere dall’esperienza che ne abbiamo. Un’esperienza che ha sempre degli effetti, quali per esempio il riso e le lacrime, il poetico, l’angoscia, l’estasi”. Stando a questo discorso, “l’irruzione improvvisa dell’ignoto” nelle nostre vite ci consente di fare silenzio (“il silenzio non è niente se non mette fine, almeno per un istante, al pensiero”) e di “sentire” le cose. Per fare questo “è necessario smettere di sapere (di parlare)”. Insomma, se il sapere ci porta alla conoscenza, il non-sapere ci restituisce pienamente quell’esperienza “sovrana” che l’uomo di oggi ha abbandonato e che l’uomo arcaico invece considerava importantissima e collocava al di là dell’utile.
Esporsi al non-sapere, per Bataille, è il solo modo che abbiamo di creare “una possibilità di contatto con il mondo dotata di una ben maggiore intensità”. Ed è quello che accade per esempio con il riso, il pianto, l’angoscia, il terrore, l’estasi, il sentimento del sacro, la poesia. Sì, anche la poesia, secondo Bataille, non va considerata come uno strumento di conoscenza ma come un’esperienza. Un’esperienza, possiamo aggiungere, che nasce dal silenzio e torna al silenzio (c’è un bellissimo verso del poeta cileno Vicente Huidobro che dice: “Dove siamo? In quale luce in quale silenzio?”). Tra un silenzio e l’altro c’è tutto il mistero delle nostre vite. Il mondo interiore e quello esteriore. Le cose che vediamo e quelle che nascondiamo. I nostri pensieri e i nostri dubbi. I nostri desideri e la nostra disperazione.
Concludo.
Siamo qui ora, siamo vivi (almeno questo possiamo dirlo), e pensando al mistero che abitiamo e che ci abita possiamo solo essere grati a tutti quei poeti che in solitudine, in ogni parte del mondo, lontano dai riflettori della comunicazione mediatica, non smettono di cercare quelle risposte che sono in cerca delle nostre domande.
*Università degli Studi di Bari, “Sguardi diversi: La poesia in Puglia oggi”
(a cura di Carla Chiummo e Mario Desiati)
Palazzo Ateneo, Aula C, II piano, 14 dicembre 2023
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