di Vittorino Curci –

Non poteva che essere dissonante il suo ultimo accordo. Per lui, che non ha mai concepito la musica come parodia e intrattenimento, anche la notizia della sua morte a 56 anni doveva essere suonata premendo il pedale di risonanza per lasciare a lungo nell’aria una sorta di domanda. Gianni Lenoci era un artista geniale. Che eseguisse Bach o Cage, o le sue composizioni scritte o improvvisate, la musica per lui era sempre un’esperienza creativa (non “ricreativa”).

Il dipartimento di “Nuove tecnologie e linguaggi musicali” di cui era coordinatore presso il Conservatorio di Monopoli (dove dal 1990 insegnava “Prassi esecutiva, improvvisazione e composizione” nei corsi di jazz) era una delle postazioni più avanzate della musica di ricerca in Italia. Sarebbe impossibile elencare tutti i grandi musicisti che sono passati di lì per lasciare un insegnamento ai suoi allievi: da Giorgio Gaslini a Sylvano Bussotti, da John Tchicai  a Marc Ducret, da Steve Potts a William Parker.

Quando andavo a trovarlo in Conservatorio ho assistito più volte alle sue lezioni e posso dire che in quanto didatta era straordinario:  non entrava mai nel merito delle scelte artistiche dei suoi allievi, ma dava loro generosamente tutto quello che poteva (non era affatto geloso dei cosiddetti “segreti del mestiere”) per aiutarli a proseguire la loro strada. In fondo era convinto ‒ e lo diceva anche per sé, ricordando gli anni della sua formazione ‒ che un vero musicista è sempre un autodidatta e che un buon maestro deve essere in grado di togliersi di mezzo il prima possibile. Ovviamente i suoi allievi prediletti erano quelli che come lui erano in grado di immaginare “l’inaudito”.

Dei nostri trent’anni di amicizia mi mancheranno molte cose. I tanti concerti fatti insieme. Le giornate trascorse negli studi di registrazione. I viaggi di notte sull’autostrada. Ma mi mancheranno soprattutto i nostri periodici incontri in cui parlavamo di musica e di arte per cinque-sei ore di seguito. Erano davvero i momenti più rilassati e felici della nostra amicizia. Ci scambiavamo informazioni, riflessioni e quelli che, in omaggio a Morton Feldman, chiamavamo i nostri “pensieri verticali”. Dico questo per ricordare essenzialmente una cosa: Gianni Lenoci era un intellettuale tout court. La sua arte prima ancora di essere il frutto della sua eccellente preparazione e del suo virtuosismo strumentale, era il distillato di un interminabile  processo filosofico intorno al concetto di musica. Non riesco proprio ad immaginare dove l’avrebbe condotto la sua ricerca se non fosse sopraggiunta così inaspettatamente la morte.  

Molti anni fa gli dedicai questa poesia poi pubblicata in un mio libro ’96.   

DARMSTADT

a Gianni Lenoci

1.
E venne l’uomo
che ingabbiò la musica.
Il mistero del campo
sposò il gesto del marinaio.

2.
Contraddire
l’attesa
di ciò che è
udibile.
Blandire l’eco
dei silenzi.

3.
L’esilio forzato
del cuore.
E bisbigli, balbettii.
Vanità
di ciò che sta
in mezzo.
Allegoria
della voce.

4.
Un angelo clown
sulla soglia.
L’opposizione
della bocca
e della lingua.

5.
Non aver
più voglia
di dire.
Non aver
più voglia
di conoscere.
Verità
pressoché ultima.
Inazione
che respira.