di Anronio Stanca –

«Da mamma emanavano
calore, forza, gioia. Ricordo più l’effetto che mi
faceva che non i suoi lineamenti. Accanto a lei
ero contento, sicuro che non potesse
succedermi niente di male.»

(É-E. Schmitt, Il figlio di Noè)

Drammaturgo, scrittore e saggista: sono le tre direzioni verso le quali si è orientato il francese Éric-Emmanuel Schmitt. Nato a Sainte-Foy-lès-Lyon nel 1960, si è diplomato al Conservatorio di Lione e laureato in Filosofia all’École Normale Superièure de la rue d’Ulm. Ha insegnato Filosofia all’Università di Chambéry ma poi si è dedicato esclusivamente alle sue attività preferite. Molto ha scritto tra commedie, romanzi e racconti, molto seguite sono state le sue opere e non solo in Francia. È membro dell’Académie Goncourt e nel 2010 ha vinto il Premio Goncourt con il racconto Concerto in memoria di un angelo. Altri riconoscimenti ha ottenuto. Da suoi romanzi e a volte da sue commedie sono stati tratti dei film. Autore molto noto è diventato Schmitt anche per la particolare maniera che distingue la sua produzione. Le situazioni da lui rappresentate a teatro o nei romanzi, a qualunque tempo appartengano, ovunque si verifichino, chiunque le interpreti, fanno sempre scoprire significati nuovi, cogliere verità diverse da quelle generalmente conosciute. Schmitt aggiunge altro a quanto già si sa, fa sapere di più. Con le sue opere è come se la dimensione umana si disponesse ad accogliere altri pensieri, altri sentimenti, volesse diventare più ampia, più estesa. 

Questo succede pure ne Il figlio di Noè, romanzo che risale al 2014 e che tempo fa le Edizioni E/O hanno ristampato con la traduzione di Alberto Bracci Testasecca.

Siamo nel Belgio del 1945, sta finendo la seconda guerra mondiale e come altrove c’è una situazione di confusione tra tedeschi che si ritirano, che compiono azioni tra le più crudeli e anglo-americani che avanzano. A Chemlay, un piccolo centro presso Bruxelles, in un collegio-orfanotrofio, detto Villa Gialla e diretto da padre Pons, sono miracolosamente sfuggiti ai bombardamenti i bambini che durante la guerra lo hanno occupato e che ora, ogni domenica, sfilano su una piccola passerella davanti ad una platea lì convenuta nella quale potrebbero esserci i loro genitori, potrebbero riconoscerli e riportarli a casa oppure ci potrebbero essere famiglie disposte ad adottarli. Sono generalmente bambini ebrei, figli di ebrei, che all’inizio della guerra sono stati affidati al collegio da genitori terrorizzati dalle persecuzioni razziste compiute dai tedeschi. A queste nemmeno loro erano sicuri di poter sfuggire. A Villa Gialla si era provveduto a cambiare i nomi e gli altri connotati dei bambini perché non fossero scoperti e potessero studiare. Solo a guerra finita li si stava facendo vedere in pubblico sperando di far loro recuperare la vecchia famiglia o trovare una nuova. Ogni bambino aveva una sua storia e quella di Joseph era la più strana giacché era continuata anche dopo il collegio. Qui si era legato a padre Pons in modo così affettuoso, così appassionato che anche quando sarà riconosciuto dai genitori e riportato a casa lo andrà a trovare, andrà a stare con lui. Vorrà continuare il rapporto che tra loro si era creato da tanto tempo e che era diventato il loro modo di essere, di vivere. Consisteva in discorsi di carattere religioso, in conversazioni circal’interpretazione dei testi sacri, l’esistenza di Dio, la vita dell’anima, la storia dell’uomo, dei popoli, la continuazione dell’umanità, la sua salvezza. Di argomenti impegnatisi diceva tra un religioso di età matura ed un bambino di appena dieci anni, significati profondi si coglievano ed uniti, convinti li trovavano.

Padre Pons nella sua lunga carriera aveva raccolto i resti, le testimonianze, oggetti, libri ed altro, dei luoghi dove era vissuto, della gente che aveva conosciuto, degli avvenimenti ai quali aveva partecipato. E a Chemlay, in una cripta nascosta nei sotterranei di una chiesa sconsacrata, aveva portato tutto, lo aveva salvato dalla rovina del tempo. Aveva fatto come Noè con l’arca, aveva salvato dalla fine l’uomo, le sue cose, la sua vita, la sua storia. Come lui aveva voluto essere il salvatore del mondo. Di Joseph aveva fatto un figlio, solo a lui aveva detto della sua impresa, aveva mostratoquanto trovato e raccolto, aveva trasmesso il compito di continuare la sua opera, di essere un salvatore.

Ancora una volta nuovo, originale è stato Schmitt, ancora una volta da una situazione semplice, da un rapporto quotidiano è giunto a verità superiori, a significati alti, è andato oltre, ha scoperto altra vita, ha indicato come conoscerla, viverla, continuarla.

Non solo narrativa è la sua ma anche storia, geografia, religione, filosofia, psicologia, morale e tutto quanto è proprio dell’uomo, del suo corpo e del suo spirito.

Antonio Stanca