di Antonio Stanca –

Nella ricorrenza della “Giornata della Memoria” per le vittime della Shoah sembra opportuno ricordare il breve volume Ho scelto la vita (La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah) di Liliana Segre, una superstite di Auschwitz. Il libretto è uscito a ottobre dell’anno scorso allegato al “Corriere della Sera” e, insieme ad un’intervista rilasciata dalla Segre ad Alessia Rastelli, contiene il discorso da lei tenuto il 9 ottobre 2020 agli studenti convenuti da più parti a Rondine, piccolo comune in provincia di Arezzo.

Rondine da tempo, dal 1998, è stata dichiarata Cittadella della Pace, vi ha sede l’“Associazione Rondine”, un’organizzazione internazionale alla quale partecipano giovani provenienti da paesi nemici tra loro e disposti a studiare, laurearsi, promuovere, progettare operazioni che possano risolvere i problemi delle loro nazioni. Qui la Segre ha parlato di quanto e di come aveva sofferto ad Auschwitz negli anni 1944-45.

Era nata a Milano nel 1930. La famiglia era di origine ebrea, aveva perso la madre quando era ancora piccola, nel 1938, in seguito alle Leggi Razziali, era stata espulsa dalla scuola come tutti i bambini ebrei, nel 1943 insieme al padre avevano riparato nella Brianza, nel 1944 erano stati arrestati, messi in carcere e poi deportati nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Qui giungono dopo sette giorni di un viaggio iniziato nella stazione centrale di Milano e condotto su carri bestiame fatiscenti. Ad Auschwitz Liliana sarà separata dal padre che verrà mandato a morte. Anche i nonni, arrivati dopo, faranno la stessa fine e lei, a quattordici anni, rimarrà sola a fare la prigioniera e la schiava. Lavorerà in una fabbrica di munizioni, soffrirà la stanchezza, la fame, il freddo come tutti gli altri prigionieri. Sul suo corpo, sempre più magro, più debole, compariranno i segni di tanto sforzo. Infine l’arrivo, a Gennaio del 1945, dei militari russi costringerà i tedeschi a fuggire insieme ai loro prigionieri ed a fermarsi in un altro campo di concentramento nella Germania settentrionale. Vi andranno a piedi e a Liliana non sembrerà possibile aver compiuto una simile fatica quando ci ripenserà una volta salvatasi. Succederà nel 1945, si salverà, rientrerà tra i suoi parenti ma la sua vita sarà ancora difficile poiché gli altri non saranno disposti a sentirla, a capirla. Ormai, dopo la guerra, si pensava a stare meglio, a dimenticare il male. Gli studi ripresi, completati, il matrimonio con Alfredo, conosciuto nel 1948, i figli, l’aiuteranno ma dovrà passare ancora molto tempo perché si senta disposta a testimoniare in pubblico, a raccontare quel che le era successo. Di questo scriverà, a volte insieme ad altri superstiti o a semplici collaboratori, ne ricaverà delle confessioni, delle rivelazioni ma anche queste le costeranno molto. Era stata tanto grave quell’esperienza che impossibile le riusciva riandarci, ricordarla, riportarla. Si era quasi convinta che un’altra era stata la persona deportata ad Auschwitz e solo così, solo pensandosi diversa da quella di allora, credeva di poter vivere ora. Dovrà giungere a sessant’anni perché questi tormenti si riducano, queste tenebre si rischiarino e riesca,la Segre, a parlare di séquattordicenne ad Auschwitz. Lo farà più di una volta, in molte circostanze, in molte scuole, università, importanti sedi politiche, diplomatiche, italiane e straniere, davanti al pubblico più diverso, sarà apprezzata, ammirata, onorata.

Nel 2018 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella la nominerà senatrice a vita, titolo che si aggiungerà ai tanti altri, comprese le molte lauree honoris causa, che le sono stati attribuiti. Un personaggio molto noto, molto popolare diventerà Liliana Segre e tanto da essere invitata lo scorso ottobre, a novant’anni, a parlare degli orrori di Auschwitz nella sala appositamente preparata a Rondine davanti a molte e diverse persone. Non aveva trascurato nessun particolare, aveva detto tutto di quel posto, di quel tempo, delle pene sue e degli altri, aveva commosso l’uditorio. Non era stata vista come una vittima ma come una vittoriosa, un’eroina, come la bambina che aveva vinto sul pericolo, che aveva resistito alle torture, come la vita che aveva sconfitto la morte.

Una figura d’eccezione è ormai considerata, sopra la dimensione umana è collocata da parte dell’opinione pubblica. Un segno di forza, di resistenza, di volontà, di coraggio, di fiducia nella vita è quello da lei rappresentato, quello destinato a rimanere per sempre.

Antonio Stanca