di Antonio Zoretti –

Il mito per i Greci costituiva una sorta di linguaggio, un modo di comunicare con i valori, disvalori, della società; un codice culturale in forma narrativa, che aveva dalla sua la forza persuasiva del racconto. Il solo lampeggiare del mito aveva già la forza di comunicare un significato o di suggerire un’emozione. La semplice menzione del nome di un eroe mitico aveva la capacità di richiamare immediatamente alla memoria non solo una rosa di ‘personaggi’, ma anche una sequenza di eventi narrativi organizzati secondo determinati modelli culturali. Questo era il mito per i Greci. Una rete invisibile, che percorre e contiene tutta la loro cultura. Basta tirarne un lembo, e il resto segue… 

Ecco! Claudio Rizzo attraverso le sue sculture estrae una parte estrema di un percorso per riportarci nel passato, per ritrovare l’antico, recuperare l’origine, perché l’estraneità del presente si illumini e renda praticabile il futuro. Gli spiriti autenticamente creativi guardano prima indietro, alla tradizione nella quale si sono formati e che intensamente amano, per trasmettere i modelli che ammirano. Poi volgono lo sguardo in avanti, dando voce alla realtà del vivere comune, perché il contesto lo esige, ma senza cercare l’inedito, la vacua e superficiale originalità, ma la comprensione del quotidiano, l’enigma in cui il senso ultimo ci sfugge, ma che sempre ci sorprende con la sua continua, inquietante e apparentemente immotivata metamorfosi. Anche per Claudio, come per tutti, la stringente necessità di vita a sollecitare la memoria e a suggerire dei nomi, che subito rievocano antichi antenati, indicando vicende semi naufragate nell’oblio, cause e ragioni avvolte nella nebbia; insomma qualcosa che somigli da vicino alla consistenza di un ricordo e che pone a sua volta, di continuo, la domanda sulla nostra esistenza e ci riporti sempre più indietro… ai confini estremi dell’immemorabile. Potrei definire così la cogente attività di Claudio Rizzo, nel senso pieno della cultura, ed è principalmente su questo, direi, che egli appassionatamente si interroga ed opera. Che è come dire che l’intera cultura è essa stessa una domanda, non una risposta, sebbene sia anche per tutti una collocazione indispensabile, un destino indicibile e un confine insormontabile. È sotto il profilo di questi problemi che Rizzo mostra l’azione artistica e l’essenza della rappresentazione, rifiutando la riduzione dell’evento artistico a mero ‘spettacolo’. Cioè a mera cultura spettacolarizzata e socialmente normalizzata. L’arte purtroppo oggi è ridotta ai manuali dei professori e alle dispense  per le edicole. Nella attuale società dello spettacolo, ove tutto è spettacolarizzato in funzione di una politica essa pure spettacolare, e cioè sostanzialmente finta come sono finte le storie televisive, l’ipervirtuale e l’ipertesto della globalizzazione cosiddetta democratica, il tragico autentico cui l’arte dovrebbe ricondurre è semplicemente cancellato. Claudio nega espressamente la finzione: in questa miseria che è il sociale, dove tutto è spettacolo. Egli ci riporta l’eco di qualcosa, una nostalgia delle cose… in quell’evento… in quell’origine… Guardare le sue opere è dimenticare la scena, abbandonarsi a un passato che non torna, che torna presente  proprio perché rimemorato nel ‘non ricordo’. La sua è una memoria ‘attiva’, colui che fa ricordare. Questo è per Claudio Rizzo la sua arte: è colei che fa ricordare a tutti noi ciò che si accinge a presentare.