Salvatore TOMMASI
Spes Messis – Storia in versi di una vocazione religiosa
Edizioni Esperidi, 2023

di Leo Luceri –

Spes Messis è un libro speciale, che sembra scritto in altri tempi e che ad altri tempi fa riferimento. È, infatti, difficile ai nostri giorni avere l’opportunità di leggere un’opera in versi che abbia una tale profondità, che rimandi a vicende vissute negli anni ’60 e offra uno sguardo su un mondo tanto specifico, su un’esperienza di vita perfino per quei tempi non molto comune.

Salvatore Tommasi rivive, in questo vero e proprio racconto autobiografico, il periodo trascorso presso i seminari di Otranto e di Molfetta, dove vi entra ragazzino e vi esce giovane uomo.

Nonostante ogni componimento possa essere letto singolarmente, non si tratta, dunque, di una raccolta di poesie, bensì di un insieme di testi poetici correlati in cui l’autore ci fa rivivere il proprio percorso di crescita e di formazione della personalità. Ci descrive i sentimenti, i turbamenti, le indecisioni, le speranze, i sensi di colpa che accompagnano questo percorso, in un luogo chiuso, a tratti claustrofobico, ma anche ricco di stimoli, di relazioni, di studi, vissuto intensamente e con profonda adesione, anche di fede.

È strutturato in un prologo, quattro parti e un epilogo e l’intento di questa breva nota è di tratteggiare una possibile linea di lettura, dipanare un filo lungo tale itinerario.

Il solco

Il titolo del prologo rivela segno, incisione, traccia. Indica una separazione che l’autore ci dice originata da “voglia d’infinito”, “sguardo smarrito”, “luce che scoppia all’improvviso” e che Umberta Colella Tommasi, nell’attenta e illuminante Nota introduttiva, definisce “una frattura che non si rimarginerà più”. Si tratta di un solco che resterà presente nell’animo, che rimanda ad un prima e un dopo, ad una fase di passaggio, cruciale, probabilmente sofferta, ma non per forza dolorosa.

Non vos me elegistis / sed ego elegi vos

È il momento decisivo, in cui bisogna avere il coraggio di intraprendere il cammino. È “La chiamata” alla quale non si può non rispondere se si è stati prescelti. “Seguimi!”, impone la voce, e la mano, che “incombe”, lo indica “imperiosa” ma anche “invitante”.

SPES MESSIS SEMEN. Sembra voglia incutere soggezione la scritta sulla porta d’entrata del seminario. Il ragazzo, seppur esitante e impaurito, la attraversa sognando “il coraggio di Tarcisio”, con la determinazione d’una fede acerba ma sentita, con la speranza, il desiderio, forse anche l’orgoglio di poter far parte della messe.

Seguono versi dedicati al “Padre” che, ricordando le parole del vangelo, ma con un tono più deciso, dice: “lasciate i ragazzi a me”; altri ai “Talenti” dove si affacciano i primi timori che il proprio talento possa essere “arrugginito”.

Ben quattro componimenti sono riservati alla “Disciplina”, severa, perché mirata soprattutto ad abituare all’obbedienza, e non sempre capita dall’adolescente, ma in fondo accettata, pur quando il castigo appare ingiustificato: “sguardo distratto, una parola anzitempo/m’han fatto meritare il castigo”; altri due componimenti rievocano dei personaggi biblici femminili, come “Ester” o “Giuditta”, esempi di fede, nei quali l’autore rivela una sicura conoscenza dei testi sacri.

Una breve sezione è destinata al “Peccato veniale”, cioè a quei piccoli episodi che causano proibita ironia o inopportuno sorriso, raccontati con grazia e leggerezza in versi che creano veri e propri bozzetti. E in forma di bozzetto sono anche i ritratti di persone conosciute in quel periodo, come “Sebastia” o il tragico “La tua messa”, e alla fine il godibilissimo, dai richiami vagamente gozzaniani, “Le suore”:

               – Sempre così gentile, superiora.

               Eccede nell’elogio il sacerdote

               e gode del fuggevole rossore,

               dell’ingenuo schermirsi ed un istante,

               nella stretta di mano del congedo,

               trattiene l’amorevole premura.

Exultavit spiritus meus / in Deo salutari meo

La seconda parte ci avvicina ai momenti fondamentali della religiosità cristiana e si apre con l’ispirato, quasi mistico “Canto della vestizione” che, con la ripetuta invocazione “vestimi Signore d’un vestito nuovo”, assume un andamento da salmo in un’atmosfera di raccolta sacralità. È questo forse il momento in cui l’autore manifesta più chiaramente la propria condivisione della scelta vocazionale e di fede:

               Vestimi Signore d’un vestito nuovo,

               immergi il dito nell’acqua e nel fango,

               negli occhi accendi ciechi la Tua luce.

In “Celebrazione” emerge la ricchezza barocca del rito cattolico, con la sua sapiente autorappresentazione, ed è possibile apprezzare la precisa conoscenza, da ex seminarista, che l’autore dimostra nella descrizione dei dettagli del rito e dei sontuosi paramenti:

               Fanno ala i fedeli al corteo

               episcopale e il maestoso incedere guida

               col battere cadenzato il pastorale.

               Sfavilla la mitria di diademi.

Segue una serie di poesie denominate “Similitudini” nelle quali Tommasi, attraverso immagini simboliche – la madre, la bianca pietra, la luce, il vento – ripercorre i passi del proprio cammino di fede.

In conclusione, tre componimenti, in versi molto sentiti, ricordano l’ultima cena – “Eucarestia” –, la passione di Cristo – “Attendite et videte” – e la “Resurrezione”.

Diabolus tamquam leo rugiens / circuit quaerens quem devoret

Il titolo della terza parte non lascia dubbi: il maligno, “esperto stratega”, “s’aggira guardingo/e prepara l’assalto”. Le tentazioni prima o poi arrivano a turbare l’animo dell’adolescente seminarista che teme di poter diventare “La mela marcia”. Ma verrebbe da chiedersi se le debolezze siano vere, o forse temute, o se invece non si trovino soltanto nella mente di chi sorveglia con occhi troppo severi, che giudicano pericolosi perfino un’innocente amicizia, il bisogno di confidarsi con un amico o semplici gesti delle mani:

               Incombente ho imparato a ogni incontro

               il peccato, immondo il contatto di mani.

Dov’è il peccato? È la domanda che sembra porsi lo stesso seminarista, ben consapevole che:

               Si deve essere in due per parlare

               raccontarsi i sogni, scoprire

               d’amare i poeti.

E per la prima volta, seguendo il desiderio, la necessità di confronto con l’altro, sfugge coscientemente alle regole imposte:

               Ma non sono riuscito a evitare

               di cercare un amico

               e appartarmi a parlare.

Probabilmente sarà proprio questo sentirsi continuamente osservato a far venire i primi dubbi sulla propria vocazione. La vera tentazione arriverà, ma in modo molto semplice e innocente, sotto forma del mare, simbolo di libertà, di altrove, di vastità:

               Se da una cosa mi lasciavo tentare

               non era lo sguardo languido

               né la parola accattivante, la lode.

               Se da una cosa mi lasciavo tentare

               era il mare.

E allora la sera, sotto lo sguardo della “vigile sentinella”, il pensiero vola ormai oltre i lunghi corridoi del seminario, verso la strada da cui provengono “voci allegre”, dove “scalmanati fingono i ragazzi/guerre di bande/e scoppi di risa”.

Multi enim sunt vocati, / pauci vero electi

Nell’ultima sezione l’autore è come se volesse riprendere il filo del proprio cammino. Parte dal ricordo di “Otranto”, dei giochi nella valle dell’Idro, dei pescatori, della cattedrale per poi passare ad una riflessione sul “Seme” in cui è già evidente qual è il suo sentire rispetto alla propria vocazione:

               Certo. Se il seme non fosse caduto

               fra queste rocce dove abbarbicato

               a stento trae l’umore il secolare

               ulivo […]

               ma su terreno aperto e rigoglioso

               […] pianta robusta allora avrebbe dato

               orgogliosa d’ombra e di frutti.

Anche nella poesia seguente, “La speranza della messe”, traspare il distacco. La ripetuta domanda – “Dove siete ragazzi?” – che l’insegnante sacerdote rivolge ai suoi ex allievi che hanno abbandonato il seminario, si trasforma in un’accorata richiesta, ma anche in un’ammissione di rassegnata sconfitta: “Un istante, ch’io vi veda qui raccolti,/tornate: benedirò gli amori […]”.

L’autore sente il bisogno di ritornare al primo giorno di seminario, a quando rispose “Eccomi” alla chiamata, a quando si sentiva attratto da ostensori, piviali e calici dorati. Avverte di nuovo “l’odore di canfora nel dormitorio immenso”, risente “voci modulate e cantilene/salmodianti”, ripensa alla propria vocazione e capisce che ciò che l’aveva mosso era il desiderio di aiutare gli umili, i “fratelli […] laceri, dispersi” più che una profonda convinzione di fede.

I suoi dubbi li esprime in “Maggio” rivolgendosi ad “un vecchio prete” il quale, però, sa offrirgli solo vani consigli di contrizione, di “santo cilicio” e di richiesta di perdono alla Vergine.

Ecco allora l’inevitabile indignazione del giovane uomo, ormai cosciente, che in “Trafficanti di cieli” non reprime la propria voce:

               Lontano è da voi il tormento

               che insegnaste al pensiero adolescente

               e nel mio corpo imprimeste abito ostile

               alla gioia,

               trafficanti di cieli,

               moderni venditori d’indulgenze

È il momento dello sdegno, ma è anche il momento in cui, attraverso un banale scherzo che gli fanno i suoi vecchi amici scrivendogli d’una ragazza che si era invaghita di lui, capisce che gli basta “un effimero nome di donna” per far vacillare “la sofferta virtù”. Non nasconde quindi più le proprie pulsioni in “Figliuol prodigo”:

               E d’una donna la fanciullesca bizzarria

               fermando il passo ammirasti

               lieto d’ingenuo stupore

In “Aut Aut”, con un chiaro riferimento a Kierkegaard, ma rovesciando in un certo senso le indicazioni sull’esistenza formulate dal filosofo, sceglie consapevolmente la fuggevole incertezza dello “stadio estetico” piuttosto che il salto rischioso, ma alla fine rassicurante, della fede:

               Ribelle morso nel frutto proibito

               ci schiuderà la scienza del fluire

La conclusione non può che essere una e “Gerardo”, nome immaginario del protagonista ma scelto in omaggio ad un sacerdote che gli era stato molto vicino in quei momenti, si sveste definitivamente della talare:

               E la talare scivola ai tuoi piedi

               balza leggera sopra la finestra

               s’empie di vento, vola sopra i tetti

e, seppur con un po’ di sgomento, chiude questo capitolo della propria vita:

               Freddo è il mattino e il silenzio t’avvolge

               immenso e trepidante della strada.

               Chiuso il cancello dietro le tue spalle

Padre nostro

L’epilogo è una preghiera laica rivolta ad un “Padre nostro, padre terreno” al quale il giovane uomo, che ha ripreso in mano la propria vita, si rivolge per conoscere “la meta”, nella consapevolezza che la risposta non potrà più trovarla nella fede bensì nella ragione.

Sono ben cinquanta le poesie che compongono questo sorprendente, insolito libro, scritto trent’anni dopo gli avvenimenti riportati, in versi liberi ma spesso impreziositi da assonanze interne,  non sempre di facile comprensione per la complessità dei riferimenti, con uno stile che rimanda alla poesia classica italiana. Una scrittura colta che, grazie a frequenti dislocazioni delle frasi, ripetute anastrofi, numerosi incisi e enjambement, a un linguaggio sempre alto, preciso, molto influenzato non solo dal lessico ecclesiastico ma anche da quello filosofico, riesce a trasmettere quel tono di ricercata introspezione, di dovuta sacralità, di delicato rispetto che il tema stesso richiede.

Piccolo gioiello rivolto alla riflessione più ancora che alla lirica o al racconto. È come se l’autore avesse avuto la necessità di soffermarsi sulle diverse fasi della propria esperienza per confermare la giustezza della decisione di abbandonare la strada intrapresa. Ma allo stesso tempo non si può non scorgere la tenerezza che sa rivolgere a quel ragazzino spaurito eppure speranzoso che attraversa il portone del seminario, la nostalgia che lo coglie nel rievocare gli ambienti, i compagni, gli educatori. Riesce a ricordare gli odori, i colori, gli innumerevoli nomi degli oggetti usati nei riti. Tutto questo serve, ancora una volta, a rassicurare sé stesso, a dirsi che il percorso non è stato un errore, gli anni trascorsi non sono stati inutili. Sono serviti a formare l’uomo, a dargli gli strumenti per poi consapevolmente decidere e intraprendere il proprio cammino perché, ritornando a Kierkegaard, l’uomo è ciò che sceglie di essere. Ed è proprio nella libera scelta, e nelle domande che a questa conducono, l’aspetto che riguarda tutti noi, il valore universale di quest’opera.