di Antonio Stanca –

Le ultime ore di Ludwig Pollak è il titolo di un romanzo storico pubblicato nel 2021 dallo studioso e giornalista tedesco Hans von Trotha e comparso quest’anno in Italia per conto di Sellerio con la traduzione di Matteo Galli. Di romanzi von Trotha ha scritto solo un altro giacché si applica in particolar modo all’arte del giardino, al rapporto tra questa e la letteratura, la filosofia. È stato l’argomento del suo dottorato presso la Freie Universitäte di Berlino, di molti suoi libri e di numerose mostre. È considerato uno specialista del settore ma stavolta ha voluto offrire una versione romanzata degli ultimi momenti della vita di Ludwig Pollak. Nato nel ghetto ebreo di Praga nel 1868 Pollak era morto ad Auschwitz-Birkenau nel 1943. Era stato un archeologo, un collezionista, un mercante d’arte molto dotato e molto noto ai suoi tempi. In tante parti del mondo, in molte città, in molti paesi, lo avevano portato le sue ricerche. Il romanzo lo mostra a Roma, dove risiedeva ormai da molto tempo. Era invecchiato e abitava con la famiglia, moglie e due figli, in un appartamento del palazzo Odescalchi di fronte alla Basilica dei Santi Apostoli. È il pomeriggio del 16 ottobre 1943, i tedeschi, traditi dagli italiani, hanno occupato Roma e stanno preparando un rastrellamento degli ebrei presenti in città per spedirli nel campo di sterminio di Auschwitz. Hanno fatto lunghi elenchi che contengono nomi e indirizzi degli ebrei da catturare. Ne prenderanno più di mille e li manderanno a morte. Alcuni avevano provveduto a rifugiarsi presso il Vaticano e da qui, da monsignor F., viene inviato a palazzo Odescalchi un vecchio professore tedesco, K., affinché avverta Pollak del pericolo e lo conduca, insieme ai familiari, nei locali della Santa Sede.

Non c’è tempo da perdere, le SS sono già in azione e K., raggiunto Pollak, lo mette al corrente e lo esorta a far presto. Ma meravigliato rimane quando non lo vede pronto a seguire le sue sollecitazioni perché vuole parlare di sé, della sua vita, di come l’aveva trascorsa. Adesso aveva settantacinque anni e riteneva molto importante, dice a K., che a quell’età una persona come lui, che tanto si era adoperata nel mondo dell’arte, raccontasse quel che aveva fatto, lo trasmettesse, lo trasferisse agli altri affinché non andasse perduto dopo la sua morte. Preso, animato da questo intento Pollak non presterà ascolto a K., al pericolo che incombe e che può verificarsi senza alcun preavviso. Unicamente interessato si mostrerà a riandare nella sua vita, a dire della sua attività, dei tempi, dei luoghi, dei modi di questa. K. cercherà di interromperlo, distoglierlo, riportarlo a quanto stava succedendo a Roma, a quanto era importante lasciare il palazzo e mettersi in salvo. Lo farà molte volte fin quando non si arrenderà scoraggiato, esausto ma anche rapito, ammirato dalle parole, dagli argomenti di Pollak. Dai suoi discorsi saprà tutto di lui. Saprà che la sua epoca, quella che va dalla fine dell’Ottocento al primo Novecento, la cosiddetta “Belle Époque”, era stata molto interessata al collezionismo artistico internazionale e che lui era stato uno dei maggiori esperti di antichità. Il suo giudizio, la sua valutazione, la sua consulenza era stata cercata non solo in ambito privato ma anche pubblico. Famosi collezionisti, importanti centri di studio, noti musei si erano rivolti a lui per un chiarimento, una precisazione, una vendita, un acquisto. Aveva viaggiato moltissimo in Europa e fuori. Aveva soggiornato e lavorato a Berlino, Vienna, Londra, Mosca, era stato in Grecia, Turchia, Egitto, Siria, Palestina, vi aveva svolto ricerche, effettuato sopralluoghi. Aveva compiuto famose scoperte, prima tra tutte quella del braccio che mancava al gruppo marmoreo del Laocoonte. Aveva ricevuto molti riconoscimenti Pollak per le sue capacità, era stato a contatto con eminenti personalità del mondo politico, intellettuale, artistico, religioso. Di tutto questo aveva scritto oltre che nei diari, venticinque volumi, anche in molte opere.

Altra notorietà gli era venuta dai tanti cataloghi compilati circa quanto dell’antichità artistica, soprattutto figurativa, era stato scoperto e collezionato. Molto utile si era rivelato il sistema del catalogo per chi possedeva la collezione e per chi ne usufruiva. Anche lui era stato un famoso collezionista e la città di Roma, dove era venuto la prima volta nel 1893 e dove poi si era stabilito per sempre, sembrò soddisfare con i suoi tanti monumenti e ritrovamenti quel bisogno d’arte che teneva sempre in moto Pollak, che costituiva il segreto del suo successo. Di Roma si era innamorato, non la considerava una città ma un’idea, vi vedeva impersonata l’idea della bellezza infinita, eterna, della grandezza impareggiabile, di tutto quanto è proprio della divinità e la fa essere unica, assoluta.

Nonostante i numerosi spostamenti sarebbe sempre rientrato a Roma, qui sarebbe vissuto fino a vecchio quando i tedeschi lo avrebbero deportato. Era l’ottobre del 1943, poco dopo sarebbe morto ad Auschwitz. Si era concluso così il suo destino, aveva atteso la morte. Non aveva voluto salvarsi, aveva accettato di morire purché gli fosse concesso di raccontare la sua vita. Aveva bisogno di farla conoscere non ad una sola persona, K., ma tramite questa a tutti, al mondo intero. Sarebbe stata la migliore ricompensa al suo amore per l’arte. Poco contava la vita di fronte a tanto. Lo aveva reso celebre il suo impegno a studiare, rinvenire, raccogliere, far vedere quanto dell’arte era rimasto nascosto alla conoscenza ufficiale, quanto testimoniava di un tempo, di un luogo che erano scomparsi. Di quel tempo, di quel luogo aveva fatto sapere Pollak con le sue scoperte, le sue collezioni, i suoi interventi, il suo lavoro. Alla luce aveva portato un mondo che sarebbe rimasto sommerso, lo aveva salvato. Un’operazione ineguagliabile aveva compiuto, una funzione sociale, storica aveva avuto.

Come di una missione si può dire tanto acceso è stato lo spirito che l’ha animata e tanto grave il destino che l’ha conclusa. Un condannato a morte, uno sconosciuto diventerà dopo che tanta vita, tanta conoscenza aveva dato.

Antonio Stanca