di Marcello Buttazzo – La malattia mentale è un terreno variamente accidentato, popolato a volte da fantasmi con la mantiglia incomprensibile. È luogo che può restare inaccessibile, inesplorato, chiuso in un irto fortino d’incomunicabilità. Se non si hanno gli strumenti idonei ed efficaci per scardinare un sordo dolore, non si può di certo entrare in contatto con se stessi e con l’altro da sé. La malattia mentale, sovente, spaventa, sgomenta, perché scuote l’interiorità e la soggettività delle persone vulnerabili fin dalle più profonde fondamenta. Viviamo in una società caotica, frenetica, e può capitare che certi impulsi e stimolazioni ambientali vengano decodificati con sofferenza, con travaglio estremo, dagli uomini e dalle donne. Con il coraggio e con l’insegnamento di Franco Basaglia si è capito che la persona folle è, anzitutto, un essere umano con passioni, intenti, progetti, con sacrosanti diritti da rivendicare. S’è compreso che il prendersi cura veramente d’un individuo “disagiato” è una mansione primaria, umanissima, la filosofia di base per qualsiasi approccio medico partecipato. Basaglia ha sparpagliato semi di compartecipazione e d’amore, ha gettato i presupposti fecondi per una nuova e diversa interpretazione della malattia mentale, che non può essere mai confinata al solo aspetto organicistico, ma deve guardare oltre, oltrepassando con un salto i rigidi steccati della vecchia e stereotipata tassonomia. Per un soggetto lacerato dalle tribolazioni e dagli scontenti, è vitale integrare la malattia in un disegno più vasto e trasformarla in qualcosa d’altro. Per cominciare a guarire non si può stagnare indefinitamente nella propria sofferenza, si deve indagare e scandagliare con occhi sereni e d’anamnesi il passato, come un esploratore scendere nei fondali più scuri, più bui della propria esistenza, senza aver paura delle dolenti e laceranti ferite, senza temere di scoperchiare botole segrete. Si deve sentire il freddo pungente dei venti sulla faccia e l’asprezza degli accadimenti remoti, si devono frantumare gli inconcepibili sensi di colpa, ci si deve perdonare, con sorrisi e gesti di comprensione si devono perdonare anche gli altri. La malattia è come la poesia: vuole pazienza. Pazienza e abnegazione, per spezzare anche inconsistenti e ghettizzanti stigmi o obsoleti paradigmi, che la identificano per forza come un impedimento, come una sciagura, come un accidente. E non come una possibilità di aurore nuove.

Marcello Buttazzo