di Antonio Bruno Ferro –

La fragilità della vita è emersa in questi ultimi giorni, perché la vita di ognuno di noi è stata messa a repentaglio da questo coronavirus, di cui non si conosce ancora il paziente zero, quello che collega l’infezione alla Cina che è il Paese da cui si è diffuso. Magari ha ragione il biologo Vincenzo Dell’Anna che ha formulato l’ipotesi secondo la quale il virus italiano si sia generato nelle stalle della Pianura Padana e che conseguentemente nulla abbia a che fare con i pipistrelli cinesi.
La fragilità della nostra vita era nota ai nostri progenitori, per sapere come stessero le cose sono andato a vedere le fonti e mi sono stupito nell’apprendere che noi italiani nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, eravamo poco più di 21 milioni e la speranza di vita media non arrivava a 50 anni, senza contare la mortalità infantile. Mi ha fatto riflettere anche la circostanza per cui in quei tempi la principale causa di morte erano le malattie infettive e parassitarie.
Oggi invece abbiamo la percezione di una sicurezza frutto del nostro stile di vita, della nostra cultura, che ha permesso le conquiste tecnologiche che ci fanno sorprendere di ciò che accadeva appena 160 anni fa quando l’Italia divenne un’unica nazione.
Ho poi dato uno sguardo alla Nigeria, perché in tutti i supermercati del Salento leccese ci sono uomini nigeriani vicino ai carrelli. Ma nel nostro territorio, ai margini delle strade, ci sono anche le donne nigeriane e ho appreso che la loro speranza di vita alla nascita è di 53 anni. Mi sono stupito anche di questo.
Mi sono venuti in mente i tanti senegalesi che, altissimi, vendono di tutto e di più in Via Trinchese a Lecce e non senza un ulteriore stupore ho appreso che la loro speranza di vita alla nascita è di 61 anni.
Poi mi sono venute in mente le badanti che vengono dalla Romania e i braccianti agricoli rumeni che per il coronavirus non vogliono andare a lavorare, così come facevano ogni anno, nella Provincia di Lodi, e ho appreso che la loro speranza di vita alla nascita è di 75 anni. Anche questo dato mi ha fatto riflettere perché la speranza di vita alla nascita in Italia è di 82 anni.
La circostanza che vede i nostri progenitori dell’Unità d’Italia con la stessa aspettativa di vita alla nascita dei nigeriani dovrebbe far riflettere ognuno di noi. Io ci sto riflettendo adesso a partire dalla mia vita.
Quest’anno compirò 63 anni e sono così attaccato alla vita che la settimana scorsa, alla notizia che l’infezione del coronavirus era nelle province lombarde e venete, ho avuto paura di perderla. Rifletto e ritengo che ogni essere umano provi lo stesso identico attaccamento, la stessa identica emozione rispetto alla propria vita.
La mia riflessione ha toccato anche la circostanza di essere stato molto fortunato a nascere in Italia in questi anni, perché il progresso di questo paese mi fa sperare di vivere ancora a lungo.
Sono emerse anche delle domande rispetto a questi fatti che ho illustrato. Queste domande nascono dalla mia consapevolezza che sino ad oggi, sino a quando non ho fatto questa ricerca sulle speranze di vita nelle varie nazioni, non avevo mai riflettuto che la durata della vita delle persone del terzo millennio potesse essere così diversa a seconda della città, del paese, del villaggio in cui si vive.
E devo essere sincero, sono titubante nel farle perché mettono in discussione la mia vita, la sua stessa durata. Poi riflettendo ancora, sono arrivato alla conclusione che tutte le domande che sono emerse da queste perturbazioni possono essere sintetizzate in un’unica e sola domanda.
Eccola la domanda: dopo tutto quello che ho scritto, vi sembra giusto che la durata della vita di una persona umana debba dipendere dal luogo in cui è nata?

Antonio Bruno Ferro