La mia Gallipoli non è qui…
“Portare via Otranto da qui” ammoniva Carmelo Bene in un suo intervento…
Lo stesso “qui” che Eugenio Barba pare contestare nel discorso da lui tenuto a Gallipoli, venerdì 26 settembre, nel Salone Esagonale del Castello in occasione della cerimonia che gli ha conferito la cittadinanza onoraria…
Dovremmo anche noi chiederci cos’è quel “qui”… Serviranno pure a qualcosa questi ammonimenti, le parole di persone che consideriamo Maestri, riferimenti.
Quanto è cambiato quel “qui”? Questo luogo-Salento, quanto ha perso, quanto è ancora salvabile… Quanto è ancora utile! Quanto ci ha dato e quanto ci ha tolto…
Ecco di seguito il testo dell’intervento.
Lo pubblichiamo per conservarlo anche noi nelle nostre pagine…
“
Sindaco, consiglieri comunali, caro Federico Natali, amici del Salento, amici che siete venuti da lontano:
La mia Gallipoli non è qui, la mia Gallipoli non corrisponde alla solerte cittadina in cui ci troviamo. La mia Gallipoli è fuori dai confini della geografia. Non è ancorata alle cronologie della storia. Non è una realtà. E’ un’isola galleggiante dentro di me. Nuota immutabile in un mare di ricordi travisati e sbiaditi.
E’ un paese che ha vinto il tempo. Una città eterna. Un luogo sacro che mi ha fatto conoscere gli archetipi della vita.
L’archetipo della crudeltà: i bambini che acchiappavano un gatto randagio e lo buttavano giù dalle mura della città vecchia sugli scogli coperti di spazzatura dove le zoccole lo azzannavano in un batter d’occhio.
L’archetipo della fede, del mistero tremendo e fascinoso. Nelle chiese, i fedeli biascicavano litanie in latino, una lingua a loro sconosciuta. Le musiche delle pastorali mi svegliavano la notte per ricordarmi che presto sarebbe nato il Salvatore, figlio di Dio. I mau, le confraternite di incappucciati, scortavano i feretri e guidavano le processioni che duravano tutta la notte. All’alba, quando le seguivo, vedevo sorgere il sole e risorgere Cristo o uno dei suoi santi.
L’archetipo dell’ingiustizia: la vedova – mia madre – che non poteva uscire da sola di sera senza essere accompagnata da un uomo della famiglia. Altrimenti era considerata una puttana.
L’ingiustizia verso i figli scalzi dei pescatori i cui padri erano scomparsi in mare; l’ingiustizia di chi aveva troppo e di chi non aveva niente; l’ingiustizia di chi era costretto a lasciare e di chi era incatenato alla sua condizione.
Nella mia Gallipoli, d’inverno, il tepore dei bracieri e degli scaldini non riusciva a lenire il freddo e l’umidità. A scuola, le mani corrose dai geloni non riuscivano a tenere la penna e scrivere in bella scrittura il dettato della maestra. Nel cimitero, una voce dietro una lapide riusciva a rispondere alle mie domande con il silenzio.
Questa Gallipoli esiste solo nella mia testa. E’ puro miraggio dal quale sconfino per raccapezzarmi nel mondo. E’ una superstizione, sta dentro di me e al tempo stesso sopra di me. Henrik Ibsen la chiamava “lisvelong”, una menzogna vitale. Una finzione che permette a ognuno di noi di dare un senso al suo agire nel mondo.
Questa è la Gallipoli dalla quale non mi sono mai separato quando quattordicenne la lasciai definitivamente nel distante 1954. A questa città sono ricorso quanto volevo sapere chi ero e da dove venivo. A queste strade, case e chiese – che i venti stringono come serpenti – sono ritornato per indovinare il cammino che voglio mi porti altrove.
Gentile sindaco,
quando lei venne a trovarmi l’estate scorsa a Carpignano Salentino e mi propose la cittadinanza onoraria, le spiegai che l’avrei accettata solo se lei avesse portato alla reale Gallipoli del presente attori e collaboratori con i quali ho condiviso mezzo secolo di vita e di lavoro.
Nonostante i problemi che assillano la città, lei ce l’ha fatta. Tutto l’Odin Teatret è qui attorno a me nella sala di questo castello. Penso sia giusto, in questo momento, che la città di Gallipoli, il suo cittadino Eugenio Barba e l’Odin Teatret danese ringrazino Silvia Godelli, assessore alla cultura della Regione Puglia, e Carmelo Grassi e i suoi collaboratori del Teatro Pubblico Pugliese per il notevole apporto economico e organizzativo che ha permesso di realizzare quanto lei si era prefisso.
Vorrei ora che Iben Nagel Rasmussen, l’attrice danese che si unì all’Odin Teatrt 48 anni fa, ringrazi lei e gli amici qui presenti, con una canzone che viene da lontano. Racconta di un esule che può visitare solo con il suo pensiero la sua patria aldilà del mare tramutata in un ramo di fiore al vento.
Eugenio Barba
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