di Marcello Buttazzo –

Il convento, quel giorno, sembrava radioso. Marco vi si recò con i compagni, per trascorrere le consuete ore di svago. Era estate, la primavera dei fanciulli, persi ad inseguire un pallone, a scalare un albero di pigne, a giocare a nascondino, a fare a botte. Pugni sonori, fino a vedere il sangue. Quella visione di rosso fermava l’aggressore, come mano sottile lo immobilizzava su una soglia invalicabile. E Marco, più che il rosso, avrebbe voluto vedere il bianco, l’indaco, il rosa, il violetto. Tutta un’iride d’un qualcosa di fuggevole, di rapido, ma durevole nel tempo. Un qualcosa d’altro, cui ancorare l’irrequietudine della sua anima, del suo pensiero vagabondo. Forse, il convento rappresentò, negli anni successivi, il posto ideale: un luogo di meditazione, di contemplazione, dove fermarsi, dove cristallizzare gli istanti altrimenti indefiniti. Istanti, che il risveglio disgrega e porta via con sé.

Era giugno, e quanto promesso dal mese precedente, il maggio dei profumi e delle rose, della Madonna, dell’incanto, s’avverava d’improvviso. Odoroso come pupilla spersa, nei fianchi femminei d’una dolce fanciulla. Chiudeva la scuola elementare del paese, di questo Sud selvaggio e forte, di colori vivaci, di sapori delicati e possenti, d’amore. Di amicizia. S’accantonavano i libri, del resto mai aperti d’inverno, e ci si tuffava spericolatamente nel sole. Il convento, coi suoi frati francescani laboriosi, intelligenti, ci nutriva a braccia aperte, spalancate: noi bambini, lì, trovavamo tutto. Giochi, biblioteca, preghiera, silenzio, frastuono. Botte e botte! Ci si picchiava gioiosamente non tanto per stabilire una scala gerarchica come fanno i politici, i mafiosi, i leoni, le tigri, gli animali feroci. Ci si batteva per il gusto di vedere il rosso d’incanto. Quel rosso di sangue, che era una manifestazione della nostra interiorità, un segno d’amore, una spia di complicità. Un vincolo stretto, che ci legava, che bonariamente ci asserviva a questa nostra terra. Questo filo stretto, come tela intricatissima d’un ragno, d’una ragnetta, si sarebbe rotto con il tempo, con l’età. Quel tempo che tutto consuma: gli anni, la spensierata adolescenza, la beltà, l’incanto. Che tutto corrompe. Tempo trascorso, di straordinari batticuori, che oggi consapevolmente ci ha spezzato le ali e, come velo ingannevole, ci nasconde la realtà. Che almeno incessantemente ci mostrasse la strada ancora da percorrere, come stilla di pioggia in un immenso deserto! Ma oggi non ce lo dice e, forse, è meglio così.

Restano a noi gli scavi di ricordi belli, quando afferravamo, come colorato e indefinito aquilone nelle mani d’un incosciente bambino, anche per solo attimo, il senso dell’esistere. Che mai potrà svanire! Quel vivere la vita umilmente, francescanamente, in blasfema preghiera, fra parolacce e botte, ma uniti e indivisibili, è tutta una vita: è il codice acquisito in quegli anni, che dovremmo tramandare forse ai nostri figli. Del convento, oggi, resta l’idea, quella idealità d’intenti, che sopravvive alle lordure della vita, alle inevitabili contaminazioni dell’esistere. Fra le altre cose, nella preghiera semplice di bambini, trovavamo i capisaldi di una unione di storie. Eravamo veramente fratelli. L’idea d’allora è, oggi, la visione d’una radicalità del vivere, che Marco ha nel suo sangue. Marco di questo fantastico castello ne ha fatto una bandiera. Purtroppo, ai nostri giorni, quella favolosa idea di fratellanza e d’uguaglianza, quella potente idea pare definitivamente tramontata. Frantumata da vili dittatori, che continuano a tenere civili inermi come ostaggi, sulla base di ideologie ormai svuotate. Che è morta nei campi d’una vita china e schiava. Pensiero forte d’eguaglianza spazzato via con tutta l’ignominia del potere meschino e della logica perversa. Eppure, quel che andava predicando un folle, tanti e tanti anni prima, era sostanzialmente lo stesso messaggio. Quel Salvatore predicò libertà, fratellanza, amore. Era troppo in anticipo sui tempi: per questo barbaramente trafitto tre volte, nel legno. Ma, nel 1974, Marco, il radicale, non poteva sapere queste cose. A lui interessava stare sempre con gli amici, giocare a nascondino, a pallone. Marco marinava la scuola d’inverno, meditava d’estate, giocava la vita. In primavera, in particolare, col risveglio della Natura, Marco si sarebbe dilettato d’Anatomia Comparata e Zoologia, dissezionando e arrostendo lucertole. Molto prima di leggere di rigenerazione animale, poté osservare che le zampe di questi verdi rettili rigeneravano raramente, mentre la coda più frequentemente. Ma da bravo fanciullo di nove anni, non si chiedeva perché ciò avvenisse, quasi fosse un imperscrutabile disegno divino. Magari di San Francesco, che campeggiava lì nelle circostanze, la Chiesa circondata dal verde. In quell’Eden dell’infanzia, i padri pazienti ogni giorno ci accoglievano. Accoglievano, premurosi, le nostre monellerie. A dire il vero, però, a differenza di qualche suo compagno, a Marco, seviziare le lucertole non interessava più di tanto. Non per senso d’animalismo o per passione per gli equilibri naturali. Non seviziava le lucertole, perché Marco, il radicale, amava altri giochi.

Marcello Buttazzo