di Maria Grazia Palazzo –

Nota di lettura a Fra le Pieghe del Rosso di Marcello Buttazzo

Nell’aprile 2022 è stato pubblicato l’ultimo libro di poesie
di Marcello Buttazzo da iQdB, con una duplice nota
di Vito Antonio Conte e di Chiara Evangelista.

La copertina è rossa, sembra voler suggerire l’anima dell’opera, le vene di una storia segreta, come quella di tutti gli innamorati della poesia, innervata dal sangue che scorre sotterraneo, in una rete invisibile di vie di terra, profonde e nello stesso tempo s’innalza protraendosi oltre, nell’aria, in vene sottili, invisibili anch’esse. La parola sgorga già dalle prime liriche (I, II, III), come improvvisa dall’intimo vissuto, dalla memoria, dal minimo quotidiano, e si fa canto immaginifico, s’invola nelle volute di un tormento desiderante, nell’attesa di un miracolo che scuota le radici, senza far crollare mai le stelle a cui rivolgere lo sguardo oltre. È un canto panico, tra il timore e il tremore, misterioso e indefinibile, antico, causato dalla presenza, dalla avvenenza della bellezza che s’incarna ora “sulle gote ribelli delle fanciulle in fiore” (IV) ora nell’attesa dell’estate, del sole, “dio di fuoco”, o nel canto dell’astro lunare (V). È visione, desiderio di incontro di un corpo di donna che è tutto, che è succo, senso di vita, di relazione amorosa, di dialogo e di baci (VI). È rapimento estatico di sguardo, “Lo sguardo traverso/della notte/ ha l’argento /d’una luna rotonda/bella come le tue gambe. /Luna tralucente/come i tuoi occhi./Ma sono falò/i tuoi occhi? (VII). Gli occhi di una donna, come forza vitale e creatrice, che sprigionano anche turbamento, avvincono, “tu sei/madreperla e madreselva”. Basterebbero questi pochi versi per intravedere nei versi di Buttazzo quell’imaginario poetico, che è esperienza desiderante, estatica, viaggio mediterraneo, tradizione classica, evocazione che si fa presente senza tempo, in un ricercare perenne, fino allo sconfinamento, allo sperdimento, alla veglia insonne, nel continuum spazio-temporale che ogni presenza-assenza infonde, fino a farsi attimo complice, sentimento e contemplazione (VIII).

“Spierò sempre fra le pieghe del rosso/per scovare il corso del sangue/ l’ardimento temerario/il fermento delle stelle. /(…) E dormirò/nel tuo grano/che ondeggia a giugno, (…)/Calpesterò/l’erba virente/e lo scontento/per sentire puro l’odore di te/ volatile sentimento.” È il fluire della vita, è l’avvertenza della morte che spinge a mettersi in ascolto di parole nuove, “per spegnere l’eterna irrequietudine/e per colmare/ il nostro vuoto d’amore” (XXXVIII), a coltivare senza sosta il giardino della poesia. “Ma verrà,/qualcosa verrà.”

La rivelazione della poesia è un dono degli dèi, è per bocca degli dèi che si fa poesia e il poeta forse è una divinità decaduta, detronizzata dal mondo che ha scambiato l’apparenza per la materialità, l’avvenenza per il possesso. Nel commercio del mondo, infatti, il poeta per restare tale, per essere fedele a sé stesso, deve cedere qualcosa della sua ambizione umana, restare un po’ “alla finestra” del mondo stesso, attraversarlo tutto, da cima a fondo, lasciandosi scavare da altri occhi, di aurora e di fuoco, lasciarsi macerare dalla solitudine per uscire fuori, ricreare il mondo, il proprio mondo “ai bordi della sera” o “nella carezza del primo lucore, lasciandosi guidare da “quel fruscio di stelle” che non è dato a tutti seguire. E forse, anche in questa è la vocazione poetica di Marcello Buttazzo. Buona e lunga vita alla sua poesia.

Maria Grazia Palazzo