di Paolo Arena –

C’è il sole e il mare, il soffio del vento e il silenzio della calura estiva nei versi che Giuseppe Cinà propone in questa sua prima raccolta poetica, dal titolo A macchia e u jardinu (ed. Manni, 2020).
C’è la Sicilia aspra e tenera, con la forza della sua natura che tutto sovrasta e modella, che forgia a sua immagine uomini e animali immersi in un medesimo destino. E c’è l’autore, che si cala in questo mondo con rispetto e riverenza, con lo stupore di chi vi scopre, o vi riscopre, estraendola da un passato sommerso, la sua appartenenza ad essa. L’occasione di questa scoperta (o riscoperta) sembra essere la signora Rosa (la za Rosa), che agli occhi dell’autore evoca mitiche ancestrali figure, quasi immagine della Terra Madre, che parla di sé e dei luoghi dell’infanzia con il sofferto distacco del tempo, che però non può estinguere la nostalgia di qualcosa che non c’è più.

Con la za Rosa, Giuseppe Cinà intreccia un fitto mutuo dialogo tra la prima e la seconda sezione della raccolta: la prima infatti è intitolata Cuntu di Sparauli, e Sparauli è la campagna dove la za Rosa (che dà il nome alla seconda sezione) è cresciuta, è il luogo della sua formazione e del suo radicamento, degli affetti familiari e delle certezze, da cui poi ella si è allontanata e che ora rievoca con il rimpianto di chi ha perduto un paradiso fatto certo di sofferenza, ma soprattutto di comunione con la terra e gli animali.
In questa prima sezione il poeta, subentrato alla za Rosa in quella campagna, effonde il suo lirismo, come a dare voce a chi in quei luoghi lo ha preceduto, a farsi interprete dei sentimenti di lei, in un contrappunto in cui la sua voce poetica compensa le concrete rievocazioni dell’anziana contadina, le sue descrizioni e i suoi ricordi. Questi compongono la seconda sezione del libro, che si presenta come una sorta di prosa poetica dal linguaggio semplice e rapido, che ben restituisce la voce della za Rosa e che scolpisce in modo essenziale e realistico uomini, animali e cose.
Il linguaggio poetico di Giuseppe Cinà è piuttosto ricercato, sempre intento a ottenere un equilibrio tra contenuto e forma, con una particolare attenzione alla parola e alla sua formulazione fonetica e morfologica. Egli si cala, e non solo sul piano linguistico, nel mondo contadino, sarebbe meglio dire nella natura contadina, in maniera quasi panica. A questa natura l’autore svolge lo sguardo con animo commosso, come a un mondo ritrovato, per rivisitare sé stesso e ridefinirsi in una campagna salvifica, Sparauli, così simile alla campagna della sua infanzia, rievocata nella poesia Omini e arbuli: «santuariu ri aranci e mantrina // chi mi patri chiantò», dove «ritrovu // ancora na vota i virdi maniati // ru me caminu». In questo mondo ritrovato, il poeta si muove ora con sguardo contadino tra pietre, ulivi e carrubi: «mmenzu a silenzi assoluti mi fermu // ammaliatu […] nta sta terra amurusa […] mi perdu e m’arritrovu » (poesia: Na vuci surgiva).

Giuseppe Cinà è nato a Palermo nel 1950, è architetto e urbanista. È stato professore associato di Urbanistica al Politecnico di Torino, occupandosi in particolare dei temi della conservazione dei centri storici, del progetto urbano e della pianificazione delle aree agricole. Ha lavorato come docente e ricercatore in numerosi paesi, con maggior riferimento a quelli islamici (Algeria, Iran, Iraq, Turchia), all’India e alla Cina, dove ha tenuto corsi e diretto workshops. Ha pubblicato molti testi specialistici sui temi della città, del territorio e dell’agricoltura. Questa è la sua prima raccolta di poesia.