di Antonella Corna

Ho avuto in dono un libro di Vittorino Curci: L’ora di chiusura. Poesia.
Mi incuriosisce il titolo. Parla di chiusure e già da subito apre in me una serie di domande: cosa avrà spinto Vittorino a scegliere questo titolo emblematico?  Conosco la sua penna sapiente, so che dovrò volare alto, spingere la mente al massimo delle mie possibilità, andare oltre i limiti del prevedibile, bucare i muri pur di guardare l’inimmaginabile.

Vedo le altitudini del volo che m’aspetta e ho un brivido sottile.

Inizio la lettura dalla fine, dalla chiusura, appunto. È una cosa che faccio sempre con i libri di Poesia, forse perché prosaicamente mi aggrappo all’idea che anche i Poeti sono umani e magari alla fine di un libro intenso e ammaliante, anche loro per una volta, soccombono, come tutti, a pensieri più alla buona, o forse perché, come apprendista poeta, a volte non sento quella voce… e certe solitudini bruciano.

Cerco conforto in un mal comune che non troverò, ne sono certa.

Velocemente scorro le pagine centrali. Lo sguardo ruba qualche verso di sicura profondità. Non mi soffermo, faccio invece passare con maestria la carta sul polpastrello del pollice destro, deciso ad arrivare in fondo… apro a caso: 

forse non tutto è stato detto.

che importa, il senso è chiaro.

queste vecchie medaglie, le armi

sotterrate, i bambini a cavalcioni

sulle spalle, tutto fa pensare

che non c’è più nessuno ad ascoltare

Resto spiazzata.  La forza di gravità è rispettata. Alla fine si dicono le ‘peggio cose’, quelle più vere per intenderci, le più dure, ma le parole qui nascono nel fondo e poi prendonouna rincorsa imprevista, riescono a confondermi in un gioco di specchi, cambiano strada in modo repentino, si staccano da tutto il resto in un enjambement emotivo a cui non ero preparata.

Staticità e movimento, pieno e vuoto, rumore e silenzio. I piani contrapposti si moltiplicano e si allargano come cerchi concentrici ad abbracciare la memoria, il tempo presente e la storia, quella accaduta e quella che accadrà. È il movimento tellurico di quel forse non tutto è stato detto.

Mi aspetto scosse di assestamento che non arrivano. Il pensiero del poeta sembra acchetarsi, quasi placarsi. Il moto cede ad una apparente fermezza (vecchie medaglie) delle cose, a una fissità (le armi sotterrate) che denuncia mistificazione dei valori, camuffamento del senso veritiero delle cose, oscuramento.

La poesia sa farci vedere, in poche immagini, una dimensione spazio-temporale che distorce gli eventi, li rende àfoni, creando al contempo, camere anecoiche dove i suoni che arrivano sono illusioni della mente.

Tutto sembra trovare compiutezza nella sola felicità dei bambini a cavalcioni sulle spalle.

Una poesia che è visione, in soli sei versi.

Mi torna in mente una foto di Alain Laboile, vista ad una mostra fotografica qualche anno fa. Ritrae due bambini, spensierati e liberi nelle loro espressioni corporali, liberi anche dagli orpelli dei vestiti. Lui, sei anni o giù di lì, tiene a cavalcioni sulle spalle la sorellina, di qualche anno più piccola, che gli cinge stretto il collo con le braccia. Corrono, non si capisce bene in che contesto. È tutto sfocato: il panorama, i corpi, i visi di entrambi. A fuoco solo un gomito alzato nello sforzo della presa e un ciuffo di capelli al vento, di lei. Come a sottolineare che ciò che conta davvero è sempre solo il dettaglio.

Anche quei bambini non ascoltano, non vogliono ascoltare le voci che sicuramente chiamano per dire, per avvisare, per mettere in guardia. Non sentono nulla, non vedono nulla, esistono per loro stessi, paghi della loro nudità, della loro irriverente incoscienza.  Procedono sfrontati incontro ad un futuro nemmeno immaginato, nemmeno pensato. E quindi assente. La mente impregnata dall’euforia del presente.

Penso che anche il mondo è così, vacuamente bambino, ed ai Poeti tocca rappresentarne la dolente verità.

Vittorino lo fa anche con la punteggiatura. I suoi punti sono rivoluzionari, non chiudono mai, come a dire che nonostante tutto, sì, è possibile, non c’è da perdere la speranza, non c’è da arrendersi, da irrigidire i pensieri, da barricarsi dietro ai ‘così si fa’.

Mettere punto, ma senza cattiveria, non arroccarsi alle maiuscole per forza, cercare una nuova salvezza, una nuova necessaria evidenza.

Perché le porte sono aperte, i conti tornano lo stesso, le cose in fondo sono tutte possibili. Basta tornare a guardare. A leggere.

E così riprendo, questa volta dall’inizio.