di Franca Alaimo – La poesia di Ilaria Caffio cade spesso, per sovrabbondanza emotiva e affannoso tumulto della memoria, in zone d’oscurità così impervie alla razionalità da richiedere al lettore soltanto un abbandono partecipe al suo mondo di suoni scossi, e abbondantemente, dal subconscio.

Di fatto la poeta tarantina sembra rifarsi ad un concetto poco in auge nella letteratura contemporanea qual è quello dell’ispirazione come stato di perdita del sé, quando il vaso del corpo si apre per farsi ricettacolo della voce divina, che canta attraverso.

Ed ecco, infatti, che quel ‘tu’, così ricorrente nella prima sezione della silloge, è anche (poiché, va subito detto, si tratta di un ‘tu’ segnato da una sostanziale ambiguità che lo determina variamente) il dio dettante, che la muove a fare, che di lei s’impossessa come una Sibilla; sebbene, talvolta, il rapporto si rovesci, e sia lei, scalza e smaniosa, ad ingoiare questo dio, a profanarlo, a  smembrarlo, come una Baccante.

È, infatti, una guerra che si fa “con la clava delle parole”, quella che vuole indagare la relazione fra sacro e profano, fra alto e basso, fra vita e morte.

Si tratta, dunque, di non sottrarsi al disordine degli opposti a costo del sacrilegio, della bestemmia, pur di attingere a una diversa significazione della religio che non sia sistema di pensiero o astrazione teologica, ma rimedio al tempo della mortalità: è questo, infine, il problema dei problemi per la poesia: il momento in cui scrivere versi coincide, innanzitutto, con la bio-grafia, cioè con la scrittura del proprio essere nel mondo, che, nel consentire al poeta di calarsi nel fondo del proprio inferno esistenziale, gli affida allo stesso tempo il compito di transumanarlo.

La poesia, questa poesia di Ilaria Caffio,  è, di fatto, “il luogo che ingoia/ serpenti e esistenze” e che, però, le consente di riemergere alla vita pacificata e quasi intatta, facendola capace di rigenerare “l’umanità diminuita”.

L’autrice sottolinea più volte la funzione catartica della poesia, come quando scrive: “Voglio stare pulita alla tua origine di rosa/ casta annodata / chiedo di stare sulla lingua tua beata”, testimoniando nell’evidenziare in corsivo i verbi “voglio” e “chiedo”  il duplice carattere di volontà e preghiera nel suo rapporto con il mistero della creatività.

Rilke scriveva che ammettere la vita senza la morte e viceversa sarebbe per la poesia una limitazione escludente l’infinito. Ilario Caffio sembra rammentarsene, quando, dovendo affrontare, come lei li chiama, i suoi “serpenti”, mette a nudo le numerose morti occorse nel suo percorso biografico ‒ sia che esse coincidano con la sparizione fisica di un corpo amato (la madre), sia con l’esperienza dell’abbandono (il padre), sia con la fine di un rapporto amoroso ‒ con il desiderio di innestarli nel tempo infinito della poesia e trasfigurarli.

Forse per questo i cari morti dell’autrice (quei morti che i vivi non ricordano: “La colpa dei vivi/stare coi piedi legati alla terra chiedete scusa ai morti/calpestate le loro teste chiedete scusa i morti” ‒ versi che mi sembrano, poeticamente, un invito a riconsiderare la tradizione, e, metafisicamente, a non dimenticare la dimensione sacra e della vita e della morte) riprendono, talvolta, voce per parlare  di se stessi e profetizzare come quelli dei poemi epici della classicità: il padre, mentre lascia il porto di Taranto su una nave, alla sua donna, rimasta sola, anticipa il destino di poeta alla figlia (“granello della gloria eterna” o, in un’altra poesia “la trave d’argento abbandonata nel deserto”) che quella porta in grembo; e, forse è la madre (o è la figlia? e davvero importa?) a dire: “Ho dato il corpo alla terra/ slacciato diametri di gambe e braccia/ con testa sospesa con tagli profondi ferita d’eterno”; o comunque quella cosa perduta, quel sogno dell’origine, che torna e ritorna dall’esilio-morte-dolore-abbandono.

Ora tutto questo accade all’interno di una versificazione complessa e, come ho già premesso, talvolta oscura, probabilmente perché per l’autrice la visione della propria esistenza coincide con una dichiarazione di poetica basata su un uso metaforico ed immaginoso della lingua. E, tuttavia, leggendo il testo che fa da introibo alla silloge, è possibile non solo individuarne in anticipo i temi: la memoria, la somma dei pianti, l’amore, dio, la morte, la poesia stessa, ma intuire la ricomposizione del dolore nel tono accorato della domanda: “dio-mio-mi-vedi?” che trova immediatamente la sua risposta nei versi successivi: “il nulla è lucente/ se è gonfio del tuo nome/ la silloge svanisce/ è traccia di stelle saccheggiate”, in cui dal tempo terreno si passa a quello divino, dallo spazio umano a quello celeste, dai segni della scrittura umana (la silloge) a quelli della scrittura disumana (le costellazioni), che è anche la significazione del Silenzio a cui pure tende il gesto poetico di Ilaria nel mare abbagliante della luce mediterranea.

Franca Alaimo – 20 Luglio 2017

Su Ilaria Caffio, Congiungimento, ed. Spagine Poesia, 2017