di Elio Ria –

Il supplizio dell’infinito

L’infinito è un’altezza indefinita che non devia né si contorce, prosegue verticalmente, incontra aria e stelle, sorpassa il cielo, non sosta sui raggi del sole, li scolora e va avanti. L’infinito è la nudità dell’universo, non abita il caos, è ordine di fuga, silenzio di estasi. L’infinito è sacrificio di soddisfazione, sempre in armonia con se stesso, nessun egoismo, estensione di rappresentazione della vita, architettura del sogno, immagine insolubile. L’infinito è Gloria, maestosità della notte e del giorno. L’infinito è bello, bianco, inodore, distesa di cielo nella profondità aperta dell’universo. L’infinito è stranezza per gli uomini, concetto aggrovigliato di un’opera in corso, ma è fermezza di luce per i poeti, scoglio per i filosofi, equazione perfetta per i fisici. L’infinito è crudele per i bambini, inutile per i giovani, inebriante per i folli.

L’infinito è caro? È di troppo per l’ intelletto, è invadente, giocoso, impertinente a rovinare la sufficienza, altera la compiutezza dell’ordine poetico e pone come obiettivo la ricerca di un’immagine che sia il fondo del mondo, laddove la conoscenza cerca l’essere che non c’è, ma regge ogni idea a un movimento di un’operazione possibile nei suoi limiti.

L’infinito di Leopardi, oggi, appare debole: non sostiene nessuna immagine, né spaventa, non sostiene la poesia, anzi s’impone al pensiero come deformità, e qui l’impossibile si compie nell’impossibilità di scorrere l’illusione perfetta dell’estasi. Rimane ogni cosa racchiusa nell’immobilità del pensiero dell’infinito, arido come deserto, ridicolo come un pettegolezzo da comare bisbetica del paese, che al calar del sole, affranta dalle fatiche di casa, seduta sull’uscio di casa, predica la morale e distrae l’attenzione della complicità della festa. E non vi è un poeta, un signore alto e bello, che possa dirci ancora qualcosa di meglio dell’infinito; vi è anzi una poetaglia che nega alla poesia l’altezza, ne ridimensiona il centro e ne discute il diametro, sacrificando l’infinito nel particolare di una storiella. L’infinito è notte tragica alla gloria accecante del giorno, non stupisce l’uomo seduto sulla panchina, né risveglia la pulsione del giovane poeta. L’inevitabile smarrimento è poesia, l’ultima sensazione di un linguaggio che va scomparendo, e la beatitudine deliziosa dello spavento  si perde nel concerto di suoni e rumori di vita da determinare.

Le vie dell’estasi dell’infinito non si percorrono, non si tenta di lacerare il cielo; tuttavia, le addizioni dell’umanità promessa all’orrore sono fugaci moltitudini dell’originalità di bellezza, banalità che si rinnovano in movimenti meccanici privi di fascino, torpore di giochi d’artificio, festa pallida di cielo, pensiero che non riflette l’universo fuori dal tempo.

L’infinito non è materia dei poeti, non è nel dizionario della vita, non è più felicità di un sentire appena percettibile nell’istante in cui il pensiero tenta di codificarlo come oggetto da misurare nell’immaginazione di una realtà, non è più la poesia che ti aspetti, che cerchi avidamente nelle pagine dei poeti, che speri di trovare ad un passo da te.

Abbiamo ucciso l’infinito, privandoci della coscienza critica delle sue manifestazioni estemporanee, della sua presenza invisibile ma necessaria; ci rimane la coscienza infelice.

Elio Ria