Marcello Buttazzo

Quante volte ci fermammo agli incroci del tempo con fluttuanti impressioni. Con la consapevolezza che l’esistenza non è solo piacere edonistico e viaggi da sperperare in prima classe, non è solo gioia da sventagliare. No! Essa è anche melanconia da interpretare e da modulare per respirare sulla pelle un ampio spettro di sensazioni, un gradiente variabile che ci faccia provare la ragione delle stelle. Che ci faccia avvertire il sapore della terra marrone, degli ulivi contorti, dell’albicocco, del susino, del pesco, del ciliegio rosseggiante d’amore. Stazionammo agli incroci del tempo per scovare intime emozioni, quelle che ci navigano dentro, che scuotono le membra. Il nostro modo di essere al mondo e di relazionarci con l’universo circostante. Di certo, in questo scandaglio profondo, fin dentro le vene, siamo entrati in punta di piedi, con delicatezza, con un caleidoscopio d’anima, per compattare parti di noi. Siamo pieni di dubbi, di incertezze, di ansietà. Però abbiamo piccoli punti fermi. Nella ricerca paziente e rabdomantica delle venule più chiare, non ci interessano le “meravigliose gesta” dei cosiddetti strati vincenti. Chi veleggia da sempre nei mari a cinque stelle non suscita propriamente la nostra attenzione. Non proviamo passione e compartecipazione per il potere dominante, sovente alchimia di compromessi, di striscianti e manifeste viltà, di meschinità. Fabrizio De André cantava che il potere gli è sfuggito dalle mani. Ed è un atteggiamento antropologico centrato quello di lasciare scivolare il potere e farlo cadere negli scantinati d’oblio, degni di anime “più altolocate”, “più belle”. A noi che facciamo della nostra fragilità e sensibilità una bandiera, una carta d’identità di riconoscimento, una bellezza seconda, attrae irresistibilmente il vento d’estate, un’alba chiara al mare, il crepuscolo che all’orizzonte s’arancia. Ci attraggono intensamente le vite marginali, spese ai confini di questa società. Esistenze difficili, complesse, ma feconde come terra rossa di zolle assolate. Esistenze dolenti, che reclamano solo attenzione e una dolce carezza. Amare l’altro è una necessità, è l’ineludibile gioco. Per mantenere, tra l’altro, una accettabile omeostasi della propria identità. Chi vive appartato, solitario, ha nel cuore l’amore vero, che pullula. Vite di migranti con il capo chino, la schiena curva a faticare nei duri cantieri, a raccogliere pomodori e angurie nei campi del nuovo approdo. Sofferenza di carcerati, stipati gli uni addosso agli altri in piccolissime, asfittiche, sporche celle con confort inesistenti. Rabbia e angoscia di giovani tagliati fuori da un sistema economico e produttivo troppo veloce, superficiale, ingeneroso ed esclusivo. Lamento di uomini poveri, che abitano quartieri dove arrivano fiochi raggi di sole. Problematicità che scorre, inevitabile. Il travaglio intenso può squarciare veli e mettere in contatto, in costruttiva interazione una diversa umanità. In un rapporto inclusivo, di condivisione, molti di noi sono tirati in ballo. Quante sono le lacerazioni ancestrali, antiche come il tempo, che qualcuno ci ha aiutato a ricucire con paziente ago di pace e d’amore? Siamo in tanti ad essere anime marginali, piagate. Ogni individuo culla fra le braccia tutto l’amore del mondo. E l’amore come un bimbo ha bisogno di avvedutezza, di cura. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambina e ogni bambino hanno nell’intimo dolori, ferite da nutrire. Tutti siamo anime colpite: con l’amore soltanto riusciamo a combattere le tenebre e ad allontanare la morte. E non esiste più gelo, non esiste più periferia nel cuore.

           Marcello Buttazzo