di Marcello Buttazzo

“Sono nata il ventuno a primavera, ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle, potesse scatenare tempesta”, cantava Alda Merini. La grande poetessa dei Navigli ha traversato coi ginocchi piagati e con l’ingegno aguzzo la Terra Santa del dolore e della desolazione. Nonostante le sofferenze, ha prodotto però liriche sublimi e autentici capolavori. La “follia” degli artisti, talvolta, ha un sapore particolare, può essere una possibilità d’espressione, rigoglio, linfa vitale, stato di grazia, lampo e genio. La “follia” può avere varie sfaccettature, diversi moduli fenotipici. Può essere anche intesa, in certe accezioni, come “non omologazione” alla società dei cosiddetti “sani”. Viviamo in un tempo superficiale, intento a dare definizioni dall’acre sapore apodittico, fisiologicamente dedito a formulare rigide classificazioni. Ma può un’asfittica tassonomia esprimere tutta la ricchezza umana, di sangue e di vita, che sta in un poeta o in un qualsiasi uomo della strada? Chi ha provato sulla propria pelle il disagio psichico, il travaglio esistenziale, il male di vivere, sa che purtroppo c’è una moltitudine che, per superficialità, ghettizza, fa differenze. Ci sono diversi critici che, a ragione, ritengono che Alda Merini “sia stata massacrata per anni”, rinchiusa nei poco edificanti manicomi d’Italia; e lei, la grande artista, l’accogliente mamma dei Navigli, “ha risposto a tanta insulsa volgarità e infamante miseria e inettitudine con l’amore dei suoi versi”. “Alda è una macchina d’amore. L’amore in lei è forza scaturente ininterrotta: qualsiasi cosa faccia, di qualsiasi cosa parli, si tratta sempre d’uno sfondo, di uno scenario: il traslato è sempre amore, una coperta avvolgente larga quanto il cielo, un signore solitario mascherato nella guittaggine dei giorni comuni”, scrive Roberto Vecchioni. La Merini è stata ed è un prodigio, un giardino fiorito, un arabesco di sole, che ha ricamato le nostre notti cupe. Però Alda è stata un caso a parte: quantomeno in certi momenti della sua esistenza è stata vista da molti (critici, letterati, colleghi poeti, lettori) con occhi di disincanto, è stata riverita, rispettata. La “follia” degli artisti (scrittori, pittori, attori, ecc.) viene considerata sovente una risorsa, come una condizione di vita borderline, al limite, dalla quale possono scaturire sorprese, prodigi. Non è così, però, per la gente comune, per i povericristi, che avrebbero sempre bisogno dei necessari sostegni farmacologici, integrati con i fondamentali supporti psicoterapici. Solo una corretta e sana comunicazione può portare ad una stagione nuova. Alla base del riscatto del genere umano, c’è la parola, il linguaggio puntuale, l’empatia, lo scambio reciproco, il contatto serrato con l’altro da sé. La società moderna iperveloce e ipergiudicante ci butta addosso venti d’indifferenza, ci fa vivere in solchi di perenne esclusione. Epperò, la vita non è solo gioia e viaggi in prima classe: essa può essere anche tormento. E anche la malattia ha un suo significato, se la si affronta desti, con l’animo vigile. In una sua lirica, la stessa Merini scriveva: “La malattia ha un senso, una dismisura, un passo, anche la malattia è matrice di vita”. La gente “disagiata” ha il dovere di essere accolta nel modo giusto, vuole sentirsi parte d’un tutto, essere protagonista d’una comunità d’intenti, di idee, di donne e di uomini di buona volontà. È vitale, in luoghi adeguati, mettere in compartecipazione esperienze, gioie, dolori, pensieri e parole. Ognuno deve sempre poter esprimere il proprio sé e comprendere l’altro da sé, con una visione aperta, morbida della realtà, sempre in nome d’una feconda progettualità. Perché, tutti assieme, dobbiamo salvarci la vita.

               Marcello Buttazzo