di Marcello Buttazzo –

Venerdì 25 novembre, presso la Libreria Palmieri di Lecce, s’è tenuta la presentazione del libro di versi “Ci salverà la tenerezza” della poetessa catanese Francesca Stassi. Ho potuto dialogare con Francesca, che ho conosciuto grazie al poeta Antonio Rizzo. Francesca Stassi è una donna gentile, sensibile, profonda, che reca nel sangue, nel connettivo delle ossa, la significanza della sua isola. Una terra a Sud, a Sud del Sud, dove i migranti del mondo approdano carichi di attese, di speranze. In questo tempo ferito da centomila evenienze, tempo violato, offeso, la poesia può svolgere una funzione primaria perfino pedagogica. Soprattutto, il Novecento letterario, il secondo Novecento, è stato una fucina di autori, anche in Italia, da Pasolini a Zanzotto, fino a Raboni, che hanno adempiuto ad un compito essenziale. Certo, la poesia civile dei suddetti poeti era, sovente, di denuncia, ma, a volte, anche d’amore. Una poesia essenzialmente di sentimenti è stata quella di Alda Merini. E, in effetti, la poesia può anche essere consolatoria. Non so se la cifra di Francesca Stassi sia di questo tipo. Di certo, la sua è poesia d’amore con varie sfumature. Francesca ha cominciato a pubblicare nel 2017. Ha scritto quattro raccolte di versi, compresa quest’ultima dal titolo emblematico “Ci salverà la tenerezza” (La Quadra Editrice). Si tratta d’un libro di aforismi e poesie. In un mondo che ci vuole forti, ferrigni, la fragilità e la tenerezza vengono viste dalla vulgata comune e corrente come limiti. E, invece, sono componenti sostanziali che danno ricchezza ai vissuti. Così si chiude la raccolta di Francesca:

Quando tutto sarà finito
continueremo a vivere di stenti
spalmati nel pane caldo
e sorridendo
fingeremo un giorno nuovo
senza avere capito nulla
di quello che abbiamo vissuto.

Ci salverà la tenerezza

Scorrendo i versi della raccolta ricorrono vari temi portanti: il sogno, il cielo, il tempo, il ricordo, l’amore, le parole, l’immaginazione, il silenzio, l’assenza, la lontananza, la melanconia, lo stupore bambino. Le parole sono evocative. Si scrive per amore, per gioia, per dolore. Si scrive solitamente quello che si sa, che si conosce. Ma, talvolta, la realtà ordinaria è asfittica. Sostiene Francesca, “scrivo quello che non so sul sillabario della mia poesia”. Il poeta scrive anche quello che non sa, che non conosce, perché l’arte di trasfigurare, di assecondare l’immaginifico è il suo mestiere di vivere. L’immaginazione di Francesca di saper vedere nuvole bianche e nere sul rosso delle passioni. Il tempo è davvero una variabile ricorrente nella poetica dell’autrice. Il sogno è dominante. Il sogno, per Francesca, è sacro, l’arcano mistero. Il sogno è fragilissimo al cospetto del tempo che ineludibilmente scorre, corre. Un altro aspetto molto significativo è il silenzio. In questa contemporaneità caotica, fragorosa di rumori, il silenzio è un porto pace che ci consente di ritrovarci in un porto di barche serene e ammarrate. Diversi versi hanno apprezzabili squarci lirici. La meraviglia bambina accompagna pienamente Francesca. Lo stupore fanciullo le fa vedere con occhi chiari la realtà effettuale. E lo sbigottimento al cospetto degli eventi naturali, come quando si osserva un grano cullato dal vento. Francesca ritiene che il dolore si possa trasformare. Non si deve mai stagnare nel dolore, occorre mutarlo in sorgive aurore vitali. La poetessa del dolore ne fa canzone.

Marcello Buttazzo