di Vittorino Curci –

Oggi, chi più chi meno, tutti ci rendiamo tutti conto che non siamo più sintonizzati con la realtà. Inoltre, consideriamo la realtà e la verità due entità separate, una cosa inconcepibile per gli uomini del passato per i quali una cosa reale era anche vera, e una cosa vera era anche reale.

I surrealisti però ci avevano messo in guardia: «Tanto credito prestiamo alla vita, a ciò che essa ha di più precario – la vita “reale” naturalmente – che quel credito finisce per perdersi» [Primo Manifesto del Surrealismo, 1924].

Ecco, è sulla quella vita “reale” (che Breton metteva tra virgolette) che dovremmo ragionare. Ma siamo ancora in grado di ragionare su queste cose?

La poesia per me è una via di accesso alla realtà. Lo è anche la ragione, ma in modo più limitato, perché l’uomo non è fatto soltanto di ragione. Oltretutto nel nostro tempo, nel tempo della tecnica, la ragione viene declinata soltanto in modo funzionale e utilitaristico. Raggiunge, sì, il suo massimo grado di sviluppo nella storia dell’umanità ma, ponendosi ciecamente al servizio dell’efficienza e della produttività mostra tutti i suoi limiti fino al punto di mettere in pericolo ogni forma di vita sul Pianeta, compresa quella dell’uomo. Tutto ciò, se usassimo veramente e pienamente la ragione, non accadrebbe. Ma noi ci affidiamo a una ragione menomata per cui dubito che trarremo qualche insegnamento. Basti pensare che nei documenti ufficiali dei governi si continua a parlare di crescita economica (un surrogato furbesco del più che abusato “sviluppo”) quando è proprio questa, la crescita economica, la principale causa dei nostri problemi.

È del tutto evidente che la ragione è finita in un’impasse e non riesce a trovare il modo per uscirne. In questa situazione di totale incapacità di affrontare i problemi veri del nostro tempo, la ragione (che è anche, evidentemente, una “razione”, la  parte di un tutto) si comporta addirittura come una religione: promette un futuro che non è in grado di assicurare a nessuno. È, ovviamente, una religione che non contempla il sacro (il separato) e in ciò si comporta esattamente come tutte le religioni che oggi, pur di sopravvivere, rinunciano a ciò che erano in origine e non sanno più cosa inventarsi.

Per me il poeta deve stare sempre sul confine tra riuscita e fallimento. Altrimenti non avrebbe senso sprecare la vita in queste cose. La poesia non è un divertissement ma una questione di vita o di morte. Non è insomma un passatempo ma esattamente il contrario: un dispositivo del linguaggio per fermare il tempo. Con le parole di Paolo di Tarso il poeta è colui che dice: “O morte, dov’è la tua vittoria?”

Dal mio punto di vista, nel testo poetico deve confluire la totalità del nostro essere, quella parte di cui siamo coscienti e quella più misteriosa e sfuggente a ogni forma di comprensione.

In poesia è più che mai valida la famosa massima di Helenio Herrera: “Chi non ha dato tutto non ha dato niente”. Aveva ragione. Ma aggiungiamo una cosa: può dare tutto alla poesia solo chi chiede tutto alla poesia e questo tutto non è certo il successo. È molto, molto di più perché, come ho già dette altre volte, il sostantivo “successo” non fai in tempo a pronunciarlo che è già “successo”, cioè un participio passato.

Il poeta è spesso un solitario ma non è mai un isolato. La sua, per usare una bella espressione di Hrabal, è una solitudine molto rumorosa. A volte, fin troppo rumorosa. Persino il poeta più oscuro che noi possiamo immaginare comunica sempre qualcosa (per esempio la sua incapacità o impossibilità o non volontà di comunicare).

Per orientarci in una situazione che appare alquanto complicata credo che possiamo trarre qualche insegnamento da quella nozione di “inoperosità” di cui parla Agamben. È bene precisare: con inoperosità non dobbiamo intendere l’inerzia o l’inattività ma un’operazione che disattiva delle funzioni usuali per aprire queste funzioni ad un loro nuovo possibile uso. È ciò che nella filosofia classica si chiamava contemplazione, dice Agamben, e cita in proposito Spinoza lì dove nell’Etica (libro IV, 52) parla di aquiescentia in se ipso, acquiescenza in se stessi. La contemplazione è esattamente questo: “una gioia con la coscienza di sé come causa”, una gioia “che nasce dal fatto che l’uomo contempla sé stesso e la propria potenza di agire”. É un’operazione immanente all’azione. Non è un fatto trascendentale, quindi. E l’esempio più evidente di questo, per Agamben, è proprio la poesia in quanto operazione “nel” linguaggio, nel linguaggio di tutti, nel linguaggio comune. Che  cosa fa infatti la poesia? Disattiva gli usi correnti del linguaggio per renderne possibile un altro uso in relazione alla potenza di dire. Quindi la poesia in definitiva non è altro che una contemplazione della lingua.

Ma non si pensi che questa contemplazione della lingua sia un fatto innocuo, una cosa da niente. Molti poeti rischiano la follia o si giocano addirittura la vita su queste cose. Quando Heidegger diceva che i poeti sono “i più arrischianti” voleva dire esattemente questo.

Nel saggio-conferenza  “Perché i poeti?” Heidegger – riprendendo la famosa domanda che Hölderlin si poneva nell’elegia “Pane e Vino”: “Perché poeti in tempo di povertà?” – dice che in un mondo caratterizzato dall’assenza di Dio non c’è più salvezza, per cui «i più arrischianti sono coloro che nella mancanza di salvezza si rendono conto del nostro essere senza-protezione. Essi apportano ai mortali la traccia degli Dei fuggiti nelle tenebre della notte del mondo. I più arrischianti, in quanto cantori della salvezza, sono i “poeti nel tempo della povertà”».