di Marcello Buttazzo –

Sono trascorsi i giorni convulsi del referendum sulla riforma costituzionale, che per l’importanza dei temi trattati ha capitalizzato l’interesse globale. Nel prossimo anno, auspicabilmente, il Parlamento dovrà affrontare la questione insoluta dei “nuovi diritti”. Per quanto riguarda le questioni eticamente sensibili, le donne e gli uomini delle istituzioni quantomeno dovranno formulare una liberale e praticabile normativa sul testamento biologico. Siamo uno dei Paesi europei che non regolamentano e non disciplinano affatto il campo travaglioso e comunque intricato del “fine vita”. Di là di qualsivoglia concezione religiosa o laica, possiamo senz’altro dire che la vita sia sacra in senso lato. Ma, al contempo, vorremmo ribadire che, in determinate condizioni estreme, di sofferenze dolorosissime, ciascuno di noi dovrebbe essere titolato e avere l’arbitrio di poter rinunciare o interrompere qualsiasi terapia sanitaria, ivi comprese l’alimentazione e l’idratazione forzate. La vita sia essa sacra e inviolabile (nel significato dottrinale cattolico) oppure sia essa disponibile (nella vulgata laica) appartiene in qualche misura al soggetto, che deve avere in ogni momento libertà di scelta. Ecco perché è di prioritaria importanza che ci sia una giusta e valida legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento, che non siano però quel ddl. Calabrò, che un passato governo Berlusconi tentò di ammannirci. Il testo passò alla Camera, ma si arenò fortunatamente in Senato, talmente era antiscientifico e pasticciato. Se questo testo fosse passato definitivamente sarebbe stato una gravissima minaccia per la dignità e per libertà del soggetto. Nel 2010, l’allora Popolo delle libertà aveva l’obiettivo manifesto di redigere una normativa non vincolante per il medico. In quegli anni, il governo Berlusconi, coadiuvato dal trasversale e agguerrito “partitone della vita”, spiccò per cultura autoritaria. In questi anni, la anacronistica pretesa di impossessarsi del nostro corpo è stata contrastata dalle iniziative dei Radicali, dei Comunisti, dei Socialisti e della sinistra più avveduta, che in varie città della penisola hanno diffuso registri comunali sul testamento biologico. Certo, essi hanno solo valore simbolico, non giuridico, dal momento che nella definizione d’un consenso informato le amministrazioni comunali non si possono sostituire al Parlamento nazionale. Effettivamente, esistono difficoltà oggettive, sostanziali, che rederebbero il documento di fatto inidoneo: tra l’altro non è possibile nominare un “fiduciario” tramite delibera del consiglio comunale, le amministrazioni dovrebbero rendere i biotestamenti disponibili 24 ore su 24 e stabilire un sistema informativo efficientissimo, accessibile ad ogni ospedale italiano. I Comuni, inoltre, devono fissare un certo impegno di spesa e istituire personale idoneo che si occupi della questione. È vero, nelle città e nei paesi non è agevole affidarsi a bilanci economici sovente deficitari. Epperò, è verosimile che i registri comunali sul testamento biologico possano avere una funzione di spinta, di sollecitazione a una classe politica litigiosa e incapace, fino ad ora, di legiferare razionalmente e morbidamente sul “fine vita”. Ci si chiede: è mai possibile che su una tematica delicatissima, come la vita, come la morte, debbano essere le amministrazioni locali ad esprimersi, in qualche modo? In un’ottica liberale di pubblica rilevanza e di socializzazione delle conoscenze, è preferibile che sulle grammatiche del vivente vengano istituiti comunque dibattiti aperti a tutti i cittadini, che dovrebbero sempre pronunciarsi insieme ai politici. In uno Stato di diritto, vogliamo ascoltare la voce sensibile della gente, di tutta la gente, che è matura per occuparsi di diritti fondamentali, assicurando così una certa eticità dello Stato. “Eticità dello Stato” che è ovviamente qualcosa di diverso dallo “Stato etico”, che ci veniva anni fa drammaticamente confezionato dallo sconsiderato ddl. Calabrò.

Marcello Buttazzo