di Rosella Simone

La casa del nulla (edizioni “Banditi senza tempo” – Milano) ha due autori: Giuliano Naria che è lo sguardo e il narratore, ed io che, da giornalista, metto in moto il ricordo, chiedo, incito, registro e, con lui, scrivo. E’ stato scritto quasi trenta anni fa e racconta una popolazione carceraria che non esiste più, quella degli anni settanta dove, per una serie di congiunture politiche e sociali, nelle carceri speciali appena istituite, si erano incontrati due soggetti ”nuovi”: prigionieri politici e banditi, i “bravi ragazzi di galera”. E non è un libro “per bene”, racconta la realtà di quel carcere e il suo paradosso, senza nascondere quanto c’era, e credo ci sia ancora oggi, di spietato e brutale. L’obiettivo era, ed è, che il lettore si chieda: a cosa serve il carcere? Cosa serve tenere chiusi in spazi murati uomini e donne?

Ma il mio compito qui è raccontare come è nato. Bisogna fare un salto a ritroso di 30 anni, agosto 1985, quando ci siamo ritrovati, dopo 9 anni e 6 mesi di separazione coatta, io, Giuliano e i suoi genitori nella casa che era stata di mia nonna a Garlenda, paesino minuscolo dell’entroterra ligure, praticamente tutte e quattro (si fa per dire!) agli arresti domiciliari. Giuliano usciva dall’Ospedale Le Molinette di Torino dopo 9 anni e 6 mesi di carcere, pesava 40 chili. Imputato di Br e di aver attentato al Procuratore della Repubblica Francesco Coco, per anni aveva resistito poi non ce l’aveva più fatta e aveva trascorso gli ultimi 2 anni di detenzione a lottare contro il proprio corpo; voleva uscire e aveva forzato gli eventi intraprendendo un durissimo sciopero della fame.

Io lasciavo Milano lavoro e casa per stare con lui. Per 9 anni e 6 mesi, a parte l’anno e mezzo di detenzione, lo avevo seguito ogni fine settimana per tutti le carceri italiane e sostenuto dall’esterno la sua battaglia per uscire dal carcere. Nel frattempo avevo perso, dopo il primo arresto, il lavoro presso una società di ingegneria; dopo il secondo l’insegnamento ed ero riuscita a campare scrivendo racconti porno per le Ore e di economia per un mensile di managment che, per mia fortuna, aveva per direttore un ex dirigente di Servire il popolo. Da poco ero approdata a Marie Claire. Ma il mio primo exploit da “giornalista” era stato nel 1980, durante la seconda carcerazione. Ero stata la “corrispondente dall’interno” di San Vittore per la rivista femminista Grattacielo.

Eravamo dunque a Garlenda e il tema era “cosa fare”? In principio i ritmi erano quelli della galera: sveglia, ginnastica, lettura. Pausa pranzo, e di nuovo studio, allora c’era il trip della linguistica, cena e scrivere. Scrivere cosa? Di carcere naturalmente, dopo tanti anni separati era rimasto l’unico terreno comune tra noi. Volevamo raccontare al “fuori” storie di “persone” non di criminali e terroristi. Ma, soprattutto, volevamo raccontare quella particolare contingenza che negli anni settanta aveva messo in contatto mondi diversi: quello dell’extralegalità e quello dei prigionieri politici, rossi e neri.

Non solo era divertente ma era anche una sorta di sberleffo al potere che aveva pensato con le carceri speciali di sopprimere ogni forma di ribellione e invece aveva contribuito a costruire, proprio per la durezza della istituzione, una saldatura, una solidarietà, un’amicizia.

Il carcere degli anni settanta aveva una popolazione molto particolare che rifletteva, come sempre fa il carcere, la particolare composizione sociale che c’era al di fuori, nelle periferie delle città e del potere e che era, contemporaneamente, un effetto e una reazione alle trasformazioni sociali in atto: dalla globalizzazione, alla introduzione delle nuove tecnologie, all’avvento dispiegato del capitale finanziario e, tutto ciò, in piena guerra fredda. Per cui il neoliberismo si scontrava allora con le legittime aspirazioni dei popoli sostenute, in molto casi, dall’imperialismo sovietico e cinese. Tutto ciò terremotava la politica mondiale provocando rovesciamenti brutali e vittorie straordinarie. In Italia erano i tempi della strage di piazza Fontana, degli attentati ai treni, di Gladio e del golpe Borghese. Nel mondo era un susseguirsi di golpe militari e resistenza. Dal Cile di Allende alla presa di Saigon. Questo per dire che per chi era giovane e faceva politica negli anni settanta alla violenza non c’era scelta, o almeno così sembrava. “Il Vietnam vince perché spara” si gridava nei cortei. E grida oggi grida domani poi devi passare ai fatti. E’ questione di coerenza. Tanto la galera ti aspetta comunque.

E’ in questo contesto che molti giovani di allora hanno scelto la Lotta armata e qualche anno dopo si sono trovati in carcere con altri ragazzi che negli stessi anni, per una sorta di “entusiamo consumistico”, avevano deciso, partendo da zero lire, armi in pugno, di fare il miliardo. Due mondi diversi solo fino a un certo punto.

Perché per chi era giovane negli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta non c’erano solo la rivoluzione alla Marx Lenin Mao Tse Tung. C’era anche un’idea di rivoluzione irriverente e beffarda, che miscelava la lettura del Capitale e i film di banditi alla José Giovanni e alla Jean Pierre Melville. Una rivoluzione che aveva lo sguardo intenso e triste del Che e lo sberleffo di James Coburn – nel film di Sergio Leone – che percorre il Messico in motocicletta per lasciarsi alle spalle passato e patria, aprendosi la pista a colpi di dinamite annunciando, perentorio e laconico, “Giù la testa, coglione!”.

Per quello che ne so io, in molti compagni di allora la rivoluzione andava a braccetto con la grande avventura. C’era il rivoluzionario e c’era il bandito. Come desiderio di esplorare una libertà senza limiti e rivoltare il mondo come un calzino per vedere da dove sarebbero usciti i vermi. Perché il mondo di compromessi nel quale ci era toccato vivere non era sanabile, bisognava farne un altro, completamente diverso e dai confini espansi, anche dall’Lsd, sino alla frantumazione delle classi, delle razze, dei generi. Rifondare il mondo con tutta la forza, l’energia, la prepotenza anche, di chi allora aveva 20 anni.

La casa del nulla nasce con questo sguardo che ero lo sguardo che aveva fatto da collante tra me e Giuliano in quel tempo lontanissimo nei vicoli di Genova, noi “operai e studenti uniti nella lotta”. Quando, oscillando tra ortodossia militante e voglia di smarronare, percorrevamo di notte i vicoli bui del centro storico, superfatti di vino e di maria, a cercare astromostri.

I carruggi di Genova ci contenevano tutti: beoni e portuali, mendicanti e banditi, maoisti e bohemienne, compagne e puttane, militanti e drogati. Eravamo tutti lì ciascuno a tessere le trame della propria vita, fatta di solo presente In fondo eravamo un po’ tutti arrivati da qualche periferia, geografica o sociale o caratteriale; gente decisa e seria ma, soprattutto, giovani. E volevamo tutto.

Giuliano ed io eravamo come dire d’epoca e avevamo in comune quello stesso sguardo sul carcere, almeno sino a quel 1985. Forse non ci amavamo più anche se ancora non avevamo la lucidità e le parole per dircelo ma almeno su quello eravamo, come dire , “consanguinei”. Ma La casa del nulla era anche un modo per provare a parlarci. Non ci amavamo abbastanza per fare un figlio ma forse potevamo fare un libro. Ci abbiamo provato tutte le sere per qualche mese seduti sulla moquette verde della sala della casa di Garlenda.

Sarebbe giusto chiedere perché tu Rosella non hai scritto del femminile e lui del maschile così da rendere più evidente i nostri diversi contributi? Allora non ci ho pensato, era avida di conoscere quei quasi dieci anni in cui era stato rinchiuso altre il muro. E poi quei ragazzi di cui volevamo narrare io li avevo conosciuti ai colloqui, accolti in casa quando erano riusciti a uscire di galera come Vincenzo quando abitava da me la sua prima moglie, Renato invece lo conoscevo dai tempi in cui era studente dell’istituto Tecnico Ferrini di Albenga quando avevo 15 anni. O Agrippino che, quando ce l’ha fatta a scrollarsi di dosso la galera, veniva a raccontarmi che voleva, a tutti costi, partire per l’India per la festa della luna. O il Pinella incontrato sul barcone che trasferiva parenti e detenuti all’Asinara. Ricordo che era stato per le proteste di noi parenti che, durante una traversata di mare particolarmente agitato, l’avevano tirato fuori dalla stiva, pallido come farina bianca ma senza un lamento.

Insomma avevamo a disposizione dei personaggio straordinari che avrebbero fatto gola a qualunque scrittore. Altro che Edmond Dantès e Jean Valjean! E poi non ne potevamo più delle lamentazioni carceraria, della compassione caritatevole nei confronti dei carcerati, del pathos del “famigliare del detenuto”, volevamo raccontare qualcosa di più vivo e vivace. Non c’erano in Italia modelli letterari a cui rifarsi ma c’era un filone culturale molto interessante che ha fornito la traccia per quello che poi, con grande imprudenza forse, abbiamo osato noi. La storia orale ha una grande tradizione in Italia, parte da Ernesto de Martino e continua con Gianni Bosio, Cesare Bermani, Alessandro Portelli, e soprattutto con il Danilo Montaldi della Autobiografia della ligera. Mischiare l’antropologia con la narrativa e raccontare non tanto la verità ma qualcosa di più interessante, almeno per noi, un mondo, un modo di vivere, una cultura e un incontro tra i bravi ragazzi di galera e “terroristi”.

C’era, naturalmente, anche tutta una lunga bibliografia di letteratura dei neri americani: I fratelli Soledad e Col sangue agli occhi di George Jackson, Anima in ghiaccio di Eldrige Cleaver, ma anche I Dannati della terra di Franz Fanon ma non meno importante per noi era stata la passione condivisa e per nulla casuale per Alfred Jarry e la patafisica “La scienza delle soluzioni immaginarie”. La scienza del paradosso, quella dei visionari dei narratori dei carcerati. E, soprattutto, non volevamo dare giudizi. A quello ci aveva già pensato la legge.

Quando alla fine Giuliano è stato assolto anche della condanna a 17 anni per la rivolta di Trani e sono finiti gli arresti domiciliari siamo venuti a Milano, nella mia casa di allora, bilocale in affitto in Viale Pisa 3. E’ lì che il libro è stato materialmente scritto. Ha scritto lui e ho scritto io, cercando, dalla giornalista che sono, di rispettare nel testo la sua ironia, il suo gusto per l’eccesso, per lo splash e anche la sua crudeltà. Una scrittura che è stata anche un combattimento tra noi, all’ultimo sangue. E quando il libro è finita era finita anche la nostra storia.

Ecco è tutto. Aggiungo solo che oggi la popolazione carceraria di cui parla La casa del nulla non esiste più, forse c’è stata nel passato, forse ci sarà nel futuro, non lo so, ma oggi la popolazione carceraria è altra. uelliIn questo ciclo di presentazioni ho incontrato OLGa, acronimo di “E’ ora di liberarsi dalle galere”, pubblicano un opuscolo dove è raccontata attraverso lettere e documenti dal carcere una nuova possibile coalizione tra le diverse componenti della attuale popolazione carceraria. Oggi non ci sono più i banditi con le loro paranze di amici fidati ma migranti con costumi, codici, lingue diverse da noi e tra loro, oggi non ci sono più neanche bande armate organizzate come le Br o i Nap o PL ma ci sono ancora prigionieri politici. Comuni e politici hanno, per ora, meno anni da scontare ma sono oppressi dalla stessa brutalità, sollecitati dagli stessi bisogni e obbligati a condividere lo stesso luogo di pena. Da lì qualcosa può di nuovo nascere. Forse un incontro tra mondi diversi e una idea del fare politica adatta al tempo presente.