di Vito Antonio Conte

Se la vita vale meno d’un cent è perché la ricchezza si misura con le banconote, con quella carta filigranata (che detta così sembra una cosa bella, ma è sudicia…) con cui si dà grasso agli ingranaggi del potere, quello bieco e cieco, quello dei circoli viziosi, quello che si può spezzare soltanto sparando o scrivendo. Sparando in tanti. O scrivendo da soli. Un tempo ho manifestato, urlato, occupato… e ho visto chi ci ha speculato… Ormai non sopporto più le speculazioni. Non sopporto più nessuna speculazione. Sulla guerra. Sulla fame. Sul sesso. Sulla lingua. Sulla carestia. Sui migranti. Sull’economia. Sulla morte. Anzi, sulle morti. Su tutte le morti. Si specula su tutto. Soprattutto sulla vita. E sulla morte. E non sopporto più chi lo fa. Nutro una fortissima idiosincrasia verso tutti quelli che speculano sulla vita e sulla morte… odio tutti i programmi che della vita (anzi, delle esistenze) e della morte (anzi, delle morti) fan spettacolo… Se la vita vale meno d’un cent è perché la ricchezza si misura coi soldi. Quelli che in tasca tintinnano e chiudono l’amore in una bara di metallo. Quelli buoni soltanto per lasciarli cadere per terra, sperando che a trovarli sia uno più disperato di te. Oppure un bambino. Quelli che stringi nel pugno della mano e liberi in un angolo di marciapiede, godendo della gioia di chi li raccoglierà, confidando che a trovarli sia uno più disperato di te. Oppure un bambino. Un altro, comunque, che sappia che il tempo tra il primo vagito e l’ultima parola è un viaggio, breve o lungo non importa, verso l’eternità. Un altro inconsapevole, cui – per una moneta – hai raccontato un sogno. Se la vita vale meno d’un cent è perché la ricchezza si misura col danaro. È troppo tempo ormai che non sopporto tante, molte, troppe cose. È da tanto che ne scrivo. È da molto che ne scrivo. È da troppo che ne scrivo. Fors’anche per questo, negli ultimi tempi, scrivo (pubblicamente) pochissimo. Fors’anche per questo, negli ultimi tempi, m’ammorbano quasi tutti quelli che scrivono. Fors’anche per questo, negli ultimi tempi, la stanchezza ha spento quasi ogni entusiasmo. Mi salva il quasi. C’è sempre qualcosa o qualcuno che mi salva. C’è sempre una possibilità. Una via d’uscita. Un’altra vita. Un altro mondo. Un altro inizio. Non lo scordo mai. Non rinnego nulla. Non mi vanto di niente. Ma ne ho abbastanza. Quasi di tutto. Quasi. C’è che, oggi (più di ieri), se la vita vale meno d’un cent è perché la ricchezza si misura con quel che hai e non con quel che sei. Quasi sempre. Non è una resa. È una presa d’atto. È guardarsi dentro. È vedere intorno. È ascoltare ogni voce. È la possibilità d’approcciarsi alla realtà obiettivamente e dire per quel che sei e ciò che senti con la propria voce. La novità e la bellezza stanno nell’autenticità. L’omologazione dovrebbe essere contemplata tra i reati penali e punita con una pena desueta: non più carcere (che, invero, è soltanto una pena per chi sta fuori e barbarie per chi sta dentro…), ma una tetra isola deserta dove manderei tutti quelli che – previa confisca dei beni da riutilizzare immediatamente… – si sono arricchiti rubando. Condannati a spaccare pietre, piantumare alberi e prendersi cura – per una volta – di qualcosa di buono. Per il resto dei loro giorni. Altro che continuare a succhiare risorse a chi ha sempre pagato e a chi verrà dopo di noi. Sarebbe bellissimo. Per la prima volta nella (…) storia, dei parassiti che, invece di nutrirsi del nostro sangue, sboccano il loro (sangue) per rinverdire un pezzo di Terra. Ce ne sarebbe da dire, oh se ce ne sarebbe… Utopia? Forse sì. E, a volerci ragionare su, son costretto a ripetermi: ce ne sarebbe da dire! Ma ripetermi, lo sapete, non mi è mai piaciuto. C’è che ci hanno martellato i coglioni per anni con la crisi: ebbi a dire che la crisi non esiste, ch’era soltanto la giustificazione al fallimento d’un modello economico sociale e politico (Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista – Kenneth Boulding) per continuare a fotterci. Poi, ci hanno anestetizzato le gonadi a furia di spot sull’incapacità dei politici di trovare soluzioni al degrado istituzionale… Adesso ci stanno massacrando le palle con la corruzione imperante… Anni fa, diversi anni addietro, ebbi a scrivere un pezzo in cui auspicavo un gran rogo da cui salvare poche cose, prima fra tutte la grundnorm, madre del diritto positivo, da accordare con i principi del diritto naturale e dar vita (nuova) a un (nuovo) corpo di norme estremamente sintetico e chiaro… che avesse sostanza comprensibile a tutti e certezza fattuale per tutti Utopia? Forse sì. Ma, senza scomodare né sposare filosofia alcuna (e, meno che mai, far riferimento a qualche ideologia…), tra tutto il ciclico reiterare di ricette politiche e pseudo tali, non sarebbe il caso di praticare un vecchio istituto del diritto romano? Quale? La dittatura! Un attimo, non quella che genera la tirannide e il dispotismo. Non quella di tante nefaste pregresse (e attuali…) esperienze di governo totalitario. Ma quella cui i Romani ricorrevano in situazioni di emergenza (le più note erano quelle del dictator seditionis sedandae causa e del dictator rei gerendae causa), dando un potere illimitato per un tempo limitato (sei mesi) al dittatore per la difesa dello Stato e della costituzione… Si potrebbe azzerare quel che non va in questo SISTEMA, per ripartire dal buono che c’è, praticando moderazione e giustizia… Utopia? Forse sì. Ma quel che, sin dal 1972, accade in Bhutan (ne ho scritto altrove…) è realtà! Non credo sia un modello imitabile (ogni luogo è tale per le peculiarità che lo caratterizzano…), ma un modo di vivere secondo cui ha fondamentale importanza l’esistenza individuale e i rapporti con l’altro, un modo di vivere cui tendere… Diceva bene Bukowski, imparo molto di più da un dialogo con un meccanico che da una lezione d’un cattedratico… Io non ho lezioni da dare a nessuno, però quando scrivo non lo faccio soltanto per me. Tra i diversi libri accumulati sul comodino prendo quello di Kapuściński ché, grazie a dio, leggere è sempre un viaggio, anche se prima mi piacerebbe… Mi piacerebbe dirvi d’un vecchio marinaio irlandese. D’una casa di pochissimi metri quadrati. La sua. Un paio di minuscoli ambienti. Stracolmi d’oggetti, di carte, d’utensili, di tele colorate, di vita. Un vecchio marinaio irlandese in pensione. Capace di vivere in solitudine. Tra le sue cose. Quelle d’un’esistenza intera. Raccolte in giro per il mondo. Sulle navi mercantili. E d’una donna australiana. Che voleva sposare. Che non l’aspetta più, ormai. Alla quale nemmeno lui più pensa, come si può pensare a qualcosa che riguarda il futuro. Mi piacerebbe parlarvi della sua stufa a legna e del fornello dove si fa da mangiare. E mi piacerebbe sfogliare una copia del suo libro stampato in cento esemplari e fermarmi sulle pagine di quella sua vita (come tante sconosciute). Chissà, un giorno capiterò da quelle parti. So che abita nel quartiere adiacente quello di case a due piani tutte uguali, dove, per riconoscere la propria, i portoni sono uno giallo, l’altro rosso, l’altro ancora azzurro e via dicendo. Lì dove il colore (della porta d’ingresso e soltanto quello) ti dice: entra, sono casa tua, t’aspetto. Forse svicolerei ancora un po’, nella strada del commercio, dove c’è un negozio di, no, non provate a chiedere di cosa, vi risponderebbero ch’è un negozio, nient’altro, un negozio e basta. Un negozio di niente, dove si vende tutto, esclusa Sophie. Tutto e niente. Proprio come la parola negozio. Proprio come ogni parola. Quando la si ripete tante volte. Come un gioco. Come una musica. Come il funk. Come quello che adesso è nell’aria. Come quello che sto ascoltando. E (dal suono) le immagini, le meravigliose immagini, immagini (oltre tutto) d’energia pura: Rufus Thomas che si esibisce sulle note di Funky Chicken nell’indimenticabile edizione di WattStax di non ricordo quale anno, ma fa niente, ché quel che conta non è chi canta bensì chi balla e lì ballavano tutti…

Vito Antonio Conte