di Ilaria Ferramosca –

“L’osceno del villaggio” (ArgoMenti Edizioni 2016) di Paolo Vincenti
Una recensione semi-seria

“Non si esce vivi dagli anni ‘80”, cantavano gli Afterhours già nel 1999.
Forse vivi se ne può anche uscire, ma indenni decisamente no. Ne sono la prova lampante quasi tutti quei bambini nati negli anni ’70 che hanno vissuto l’adolescenza nei mitici eighties, oggi adulti (si fa per dire) “con la testa sopra un altro pianeta” (come Eta Beta), ancora pronti a inseguire i restyling dei cartoni di Jeeg Robot, le repliche di Hazard, i jingles pubblicitarie le sigle cantate da I Cavalieri del Re o gli Oliver Onions.
E se per caso qualcuno non ha capito un accidente delle prime 515 battute spazi inclusi, molto probabilmente non ha vissuto quel periodo. Ve lo dice una bambina di nove anni! Sì, insomma, sarebbero lustri, ma ognuno ha il calcolo temporale che si merita.
Tornando al futuro, però, che poi sarebbe l’epoca contemporanea (vi ricordate quanto ci sembrava lontano il Duemilauno dell’Odissea Kubrickiana?) se vi dovesse capitare tra le mani un libro che s’intitola “L’osceno del villaggio” (ArgoMenti Edizioni 2016), maneggiatelo con cura. E per più di un motivo.

Primo tra tutti: nuoce gravemente al riposo mentale, sarete obbligati a ragionare, per cui se volete crogiolarvi sotto l’ombrellone o rosolarvi fino a farvi evaporare, lasciate perdere, non è cosa, sareste obbligati a dar fondo sino all’ultimo neurone rimasto (e poi vi spiegherò il motivo). Secondo, perché non è un libro, è una DeLorean DMC-12 camuffata, per cui, se ci salite sopra,accertatevi di avere una potenza elettrica di 1,21 gigawatt, o almeno del plutonio per assicurarvi il ritorno.
Vi dicevo, dunque, che non è una lettura estiva. Ma non lo è neanche invernale, perché ciò che è osceno non ha stagioni, è osceno sempre. Cosa c’è di più licenzioso e triviale, infatti, della messa a nudo della società odierna, con il suo torpore indotto dal circo mediatico? Panem et circenses, del resto, sono sempre serviti a ottundere le facoltà di raziocinio della popolazione mediocre, oggi incline alla polemica del politico che bussa porta a porta e del coniuge risentito che si rimette al verdetto finale di fior fiore di opinionisti e psicologi da salotto (il lettino è ormai archeologia sanitaria), per ottenere una ragione certificata dall’audience.
Sì, perché nel libro di Paolo Vincenti, ragazzo degli anni ’80, c’è una presa di consapevolezza, purtroppo amara, di ciò che quel decennio ha prodotto. Così, se da un lato il bambino sogna e ricorda “L’uomo Tigre che lotta contro il male” con gli occhi lucidi di commozione, l’adulto Paolo si rende perfettamente conto che il male è qui e ora ed èfrutto del vuoto valoriale e contenutistico che veniva veicolato attraverso il carrozzone catodicodi quel periodo, che oggi si prolunga fino alle maglie del Web, dove la cultura è spacciata come coca nella foresta Amazonica e in cui si possono gustareYoutuberi a buon mercato con una manciata di click.
L’osceno Paolo punta il dito con la leggerezza e la spontaneità che sono appannaggio solo dei folli, con quella capacità di vedere oltre le sovrastrutture che possiedeuna grande mente, considerata gran demente da chi, invece, vuole restare a crogiolarsi nella tana del coniglio piuttosto che uscire alla luce del sole (del resto, come titolava De André, “Dietro ogni scemo c’è un villaggio”).

La raccolta di cinquantatré articoli di cui il libro si compone, riflessioni sul presente concatenate da libere associazioni di parole e idee all’ombra di un nostalgico passato, mi ha ricordato alcuni autori che ho amato qualche anno fa (pochissimi, avendone appena nove). Primo in ordine temporale è Luca Goldoni, giornalista e autore di numerosi libri: raccolte di articoli, di racconti e di riflessioni su un’Italia scostumata, o forse “malcostumata”, fatta di vizi, cattive abitudini e formule retoriche abusate, quali il “Lei m’insegna” (che è anche il titolo di uno dei suoi libri). Tra l’altro, oltre alle modalità di osservazione disincantata e ironica querela, Vincenti ha un ulteriore elemento in comune col Goldoni: i libri di quest’ultimo erano famosi anche per le numerose illustrazioni (soprattutto copertine) di Ferruccio Bocca e ne “L’osceno del villaggio” compaiono sagaci e caricaturali vignette, quelle del geniale Melanton, che riesce a comporre e raccontare intere storie attraversol’equivalenza complessa tra parola e immagine statica (non sequenziale come il fumetto, cioè). Il fulmine che scocca dall’incontro tra questi due elementi a differente potenziale (elettrico) di denuncia altri non è che la satira. Non riesco ancora a togliermi dalla testa la geniale vignetta “Un italiano su due è un evasore fiscale”.

Il secondo autore che associo al Vincenti di questo libro, infine, è il Baricco di “Barnum. Cronache dal grande show”, in cui l’autore mette in scena, sul palco del grande Teatro della Società, personaggi e storie che vanno da Jovanotti a Mike Bongiorno, da Funari all’allora emergenteLega Nord; fa cantare assieme la voce di Carmelo Bene e quella di Tom Waits, unisce la musica di Michael Nymanalla marcetta di Topolino, la Liguria alla California e così via.
Certo, il giovane Baricco-Holden ha avuto vita facile a mettere sul palco attori del calibro di Bene, più complicato sarà stato, per Paolo, far recitare gli attuali personaggi in cerca di un autore; che scriva loro dialoghi decenti, soprattutto. Sarebbe impossibile, per esempio, paragonarela cruda poesia dei testi di Waits, graffiata più che cantata dalla sua voce, con lo scilinguagnolo di un Fedez che “Arriva portando brividi e scappa lasciando lividi” al cantautorato ita(g)liano.
In cosa si distinguono questi tre libri? E qui un difettodeve pur emergere, altrimenti la recensione sembra finta, sembra acquistata al Super-markette Maxi Discount: la formattazione testi de “L’osceno del villaggio” (elemento quindi indipendente dall’autore) è migliorabile nell’aspetto relativo alla spaziatura tra le parole, che in alcuni casi finisce per forgiare surreali crasi.
Cos’hanno, invece, in comune? Direi soprattutto il fatto d’indurre due tipidi reazione: o una sana indignazione, se si è così obiettivi da estraniarsi, distaccarsi e finalmente osservare la società dietro al vetro dell’acquario, che amplifica pesci e difetti rivelandoli; oppure un moto di offesa. In questo secondo caso potrete restituire il libro al relativo autore lanciandoglielo direttamente appresso o, al limite, potreste sempre usarlo come zeppa per il tavolo traballante e se di solito nel vostro quotidiano vi sentite osservati, non preoccupatevi non sono i servizi segreti deviati (anche perché non ne ammettereste neppure l’esistenza), è solo che vi trovate in un enorme acquario.

Non dimentichiamoci, però, che c’è sempre una via migliore per reagire (anche a questa recensione): l’autoironia. Se avete scelto di percorrerla, questo libro fa decisamente per voi.
Che aspettate a comprarlo? Come gadget omaggio riceverete una bustina di paillettes, appositamente prelevate dai costumi originali delle “Ragazze Cin Cin”.

Post Scriptum: per chiunque se lo fosse chiesto, sì il titolo è una citazione dal filmRitorno al futurodi Robert Zemeckis; certo, non è tra le frasi più note, madel resto “Ehi tu porco levale le mani di dosso” non mi sembrava per nulla adatta.

Ilaria Ferramosca