Andrea Donaera –

Mavi di Vanni Schiavoni
romanzo tra poesia e Storia edito da Emersioni.

Esistenze piccole – peculiari ma condivise, vicine al vissuto più comune – vengono gettate nell’enorme incendio della storia degli anni Zero. Otto mesi che sconvolgono le vite della ventiseienne fotografa Mavi e delle persone che la circondano. Esistenze che non possono uscire da quel periodo storico e personale illesi, che non possono non riportare ustioni indelebili, segni di curve dolci nel corso della vita o di inabissamenti senza scampo. Con questo Mavi Schiavoni costruisce un romanzo generazionale, nel segno di una volontà di riferirsi a quella frangia di donne e uomini che è stata investita in pieno dal definitivo crollo di ogni ideologia, e di ogni speranza (e di ogni possibilità): gli attuali quarantenni, cresciuti nel gorgo berlusconiano assistendo a shock da ogni angolo del proprio tempo – le Twin Towers, Diaz e Carlo Giuliani, crack economici epocali come quello argentino, l’apparire dell’euro. Ma la progettualità – più che evidente – messa in opera dall’autore pugliese non è soltanto afferente alle scelte tematiche e a un tentativo di riferirsi a un ventaglio di lettori specifico.

Questo è il romanzo scritto da un poeta, e la scrittura che lo costituisce è nitida derivazione del percorso di scrittore compiuto finora da Schiavoni. Un percorso composto principalmente da raccolte poetiche, belle e importanti, che con coerente consapevolezza non vengono relegate a episodio biografico da quarta di copertina, ma vanno a insediarsi nella visione delle cose e nella lingua di Mavi. Innanzitutto la costruzione della storia, che non si adegua alla “norma”  editorialese e obbliga a una lettura a ritroso, con i capitoli che dalla fine delle vicende si sbrogliano nel passato. Ma non in un processo di canonico flashback: Schiavoni realizza qualcosa di davvero interessante introducendo gli esiti di alcuni percorsi esistenziali, spingendoli poi gradualmente in una narrazione che va inesorabile verso la loro origine, verso ciò che davvero conta alla fine di un raccontare – cioè l’inizio. Questo espediente stilistico non fa trasparire alcun “tavolo dello scrittore”, non porta con sé l’affanno di una scelta complessa, perché è un allestimento testuale  vicino a quello di una raccolta poetica, con i suoi nuclei densi e forti circondati da un recinto di trame, rotture, fioriture: l’idea dietro questo romanzo è quella di condurre il lettore all’interno di una grande metafora diffusa delle nostre vite, non di proporre soltanto delle esistenze che meritavano d’esser raccontate. L’efficacia dell’operazione si deve alla lingua scelta da Schiavoni, che è una lingua sì di un poeta, ma al contempo anche di un narratore puro, che si connette senza esitazioni alla grande tradizione del romanzo italiano del Novecento, con i suoi dettagli che esplodono in una condizione simbolica, con i suoi dialoghi sempre decisivi, con il suo entrare bene nelle intercapedini delle cose – dalla malattia all’amore, dal lutto alla nascita. La storia, o meglio, le storie di Schiavoni si servono della Storia di tutti per prendere una posizione che a volte manca, circondata da grande silenzio, nel panorama letterario attuale: la posizione di un poeta che sa guardare la vita e il suo complicato apparato di realia con occhi nuovi, con occhi che sono soltanto suoi, e sa dire tutto questo con parole che sono soltanto sue. Anche quando le fa dire a una giovane fotografa distrutta dagli eventi della Storia che le sono passati davanti impietosamente, ma ancora abbrancata alla vita: «A volte penso che la vita assomigli a un nastro magnetico su cui qualcuno ha registrato un numero imprecisato di canzoni dei generi più disparati. Ma poi ti accorgi che il vero problema sono gli spazi tra un pezzo e l’altro. A volte sono spazi enormi. Ci sono momenti in cui hai bisogno di metà canzone solo per dimenticare il silenzio angosciante che l’ha preceduta». Mai è un romanzo in cui tutto sembra essere stato già vissuto, ma qui è sempre, tutto, «una sensazione diversa».

Andrea Donare