Giudaica perfidia, le parole del pregiudizio
di Sebastiano Leotta*
L’antisemitismo, come lo Spirito nel vangelo di Giovanni, soffia in tutte le direzioni. E tra le pieghe della liturgia cattolica c’è un luogo – luogo retorico, famigerato sintagma – che per secoli ha alimentato gli stereotipi antiebraici. Ne indaga il significato e i risvolti un recente studio di Daniele Menozzi, “Giudaica perfidia”. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia. Tra le preghiere che formavano la liturgia del venerdì santo, preghiere, per esempio, per il Papa, per il clero, per i vescovi, c’era infatti anche quella rivolta agli ebrei. L’incipit dell’orazione era Oremus et pro perfidis Judaeis, preghiamo anche per i perfidi giudeie, poco più avanti, si poteva leggere ancora della judaicam perfidiam.
Fatto salvo lo storico e teologico pregiudizio della Chiesa di Roma verso gli ebrei, lo studio di Menozzi ne indaga la presenza nella liturgia, e cioè in uno dei momenti più intensi e sacrali della realtà cattolica, che troverà definizione e disciplinamento nel Messale romano del 1570, redatto secondo le norme del concilio di Trento. L’oremus, cherisale a una tradizione molto antica, viene cristallizzato precisamente in quel momento nella liturgia ufficiale latina e avrà una notevole diffusione tra i fedeli, che la leggevano o l’ascoltavano nelle versioni in volgare dei tanti messalini. Perfidus si tradurrebbe semplicemente con “incredulo”, cioè “senza la vera fede”, ma in realtà nei volgari europei veniva tradotto con l’eticamente e socialmente negativo “perfido”: malvagio.
Per dimostrarlo, nel 1937 il filologo cattolico Erik Peterson in un saggio notevole ricostruirà la storia del termine e delle varie sue traduzioni: “perfido” in italiano, “perfide” in francese, “perfidious” in inglese. Peterson sottolinea che il perfidus latino originario, quasi un tecnicismo religioso che indicava il non credente o l’infedele (e infatti perfidis erano anche eretici, pagani o musulmani), nelle traduzione volgari diventava perfido nel senso moderno, cioè cattivo e sleale. Nessuna coincidenza, quindi, tra il significato della parola latina e la corrispettiva traduzione nelle lingue nazionali.
“Perfido” si aggiungeva così ad altre presunte caratteristiche dell’ebreo: usuraio, empio, dedito alla pratica dell’omicidio rituale, capitalista, cospiratore, e così via; si andava così a sostenere il secolare antisemitismo europeo e lo si puntellava con un fondamento religioso. L’antigiudaismo teologico si poteva saldare, in contesti ben precisi come quello delle leggi fasciste del 1938, all’antisemitismo politico e razziale: l’aggettivo “perfido” e la locuzione “giudaica perfidia” tralignavano così dal circoscritto ambito teologico a quello politico e della propaganda.
Menozzi non tratta l’antisemitismo come categoria dello spirito, bensì lo analizza nell’ambito specifico delle pratiche discorsive della Chiesa cattolica e all’interno di una retorica religiosa che tendeva a diffondere e stabilizzare il pregiudizio (possiamo ricordare, in tutt’altro versante, il magnifico studio di Victor Klemperer Lingua tertii imperii, ovvero la lingua del terzo Reich). Scrive Menozzi, ricordando il linguistic turn della storiografia contemporanea, che “l’analisi storica delle pratiche retoriche, e in particolare delle espressioni linguistiche, lungi dal ridursi a una mera storia di parole, rappresenta uno dei più efficaci strumenti ermeneutici a disposizione dello studioso per disvelare i meccanismi di funzione dell’aggregato sociale che le utilizza”.
Lo studio si sofferma, dunque, sulle conseguenze nefaste di un sintagma dal grande potenziale evocativo, come è appunto “giudaica perfidia”, diventato velocemente cliché senza tempo, scritto e ripetuto infinite volte. Del resto la formularità non è altro che l’essenza di ogni discorso antisemita e di ogni stigmatizzazione: “la perfidia diventa il canale linguistico con cui si proietta su tutti gli ebrei, in ogni tempo e in ogni luogo, un’immagine negativa, in cui l’accusa di slealtà, doppiezza, tradimento, cattiveria si salda con la denuncia a ingannare, rubare e sfruttare. Si tratta di un’operazione retorica che risulta funzionale a quella demonizzazione dell’alterità che sfocia spesso nella propensione a cancellare il diverso”.
Lo storico della Normale di Pisa ricostruisce nel suo lavoro la storia e le discussioni del coté antigiudaico del rito romano fino alle più recenti riforme liturgiche, adottate dal Vaticano II, intese ad eliminare, non senza resistenze, gli accusatori perfido/perfidia, segni di un superato antisemitismo della Chiesa. La mia impressione è che Menozzi abbia voluto mettere in evidenza come le ricadute sociali della cosiddetta “perfidia giudaica” della liturgia potessero essere di portata vastissima: la liturgia, che risuonava fin nella chiesetta più sperduti non poteva, infatti, non influenzare tra i fedeli comportamenti, valori, orientamenti. E possiamo ricordare anche, in un senso analogo, come nel grande e insuperato saggio di Carlo Cattaneo del 1837, Interdizioni israelitiche, si indaghino gli effetti pratici, nella vita economica e civile, dell’antisemitismo discriminatorio che esisteva sul piano giuridico e formale.
Inevitabile, dopo la Shoah, un ripensamento dell’antisemitismo cattolico e una riforma di quella liturgia che era stata uno dei veicoli del pregiudizio contro gli ebrei. Con il Vaticano II dalla nuova edizione del Messale del 1970 spariscono le parole perfidis e perfidiam. Ma alcune resistenze permangono. Da ultimo Menozzi si concentra sui pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ravvisandone alcune ambiguità nel tentativo di entrambi di recuperare gli scismatici lefebvriani, da sempre avversi alle aperture del Vaticano II. Permettendo ai tradizionalisti francesi, anche se con qualche restrizione, l’uso della versione tridentina della liturgia si sono infatti reintrodotte posizioni teologiche che quel concilio aveva voluto superare.
A partire da un dettaglio linguistico (ma spesso è proprio nei particolari che si nascondono gli indizi più significativi), il saggio ci consente di illuminare in profondità questioni di carattere molto più generale: “Il dibattito sulla ‘giudaica perfidia’ diventa lo scorcio attraverso il quale si colgono aspetti fondamentali della presenza della chiesa nella società contemporanea”, scrive Menozzi. Facciamo qualche esempio. Di fronte ad eventi della modernità come l’Illuminismo e la Rivoluzione francese e, per quanto ci riguarda, il Risorgimento italiano, la Chiesa si è opposta risolutamente. Per la minoranza ebraica italiana, il processo di unificazione nazionale significò fine delle discriminazioni, emancipazione e diritti politici; basterebbe leggere i numeri della “Civiltà cattolica” dopo il 1870 per accorgersi come le opinioni antiunitarie non fossero disgiunte da quelle antisemite.
La persistenza dell’antisemitismo, per concludere, è stato uno dei molti aspetti attraverso cui il Cattolicesimo ha espresso il suo rifiuto della modernità. Qualcosa di simile a quanto si può verificare nelle discussioni attorno ai Quaderni neri, appena pubblicati in Germania, del filonazista Heidegger. Il filosofo tedesco vi definisce infatti gli ebrei come gli “agenti della modernità” che hanno distorto e occultato le radici dell’occidente con il loro cosmopolitismo e con il loro sradicamento. Nulla di nuovo. In fondo ogni antisemitismo finisce pateticamente per assomigliarsi.
Sebastiano Leotta
*http://www.unipd.it
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