di Marcello Buttazzo – In quest’era di scissione, ci si divide su tutto. Ci si schiera, sovente, gli uni contro gli altri. Si affilano i coltelli, si pugnala talvolta alla schiena anche chi viene ritenuto non leale avversario, ma purtroppo nemico da abbattere. La contesa dialettica, in certi ambienti, può anche giovare, servire, perché da essa si possono strutturare intese programmatiche durature e d’un certo interesse. In politica, ad esempio, una sana e corretta conflittualità può talvolta ingenerare un circuito virtuoso e un approccio costruttivo ad una certa problematica. Però, in una società della frammentazione, delle diatribe sovente virulente e senza sbocco, s’avverte anche la necessità d’aderire a progetti unitari, di mutuo riconoscimento, secondo schemi collaudati.

Scavare in profondità fin nelle scaturigini dell’essere umano, per capire quello che può diventare e assurgere a collante, un qualcosa da maneggiare con discrezione, con accortezza, con amore, con cura. In un tempo che corre velocemente e scava voragini, si sente più che mai il bisogno di rallentare, di placare l’irrequietudine, di fermarsi un attimo. Si avverte la necessità ineludibile per sopravvivere pianamente di guardare la luna, il cielo, le stelle e il sole, recuperando parti intime e preziose di noi.

Abbiamo tutti bisogno di decelerare questo giorno impazzito, magari andare a velocità zero, ritagliando momenti di pace, di silenzio, armonia. In un tempo caotico, confusissimo, sentiamo vitale l’esigenza di recuperare un cantuccio intimo in cui ritirarci e meditare sul nostro sé, sugli altri, sul prodigio della Natura, del Creato, sulla bellezza del Cosmo. Credere, soprattutto, profondamente in una cultura non improntata necessariamente sulla contrapposizione, sulle antitesi, ma sulla consonanza, sulla concordia, sulla possibilità inerente comunque del dialogo serrato e del rispetto reciproco. Alcuni pensatori fanno giustamente notare che sono addirittura solo superficiali le opposizioni fra figura e parola, oralità e scrittura, simbolo e concetto, razionale e irrazionale, intuizione e dimostrazione, fede e sapere. Insomma, pur nella diversità delle cose e delle varie istanze, si può sempre trovare un rapporto fecondo di contatto. Una medicina salvifica, che è un balsamo dell’anima, che permette di elaborare a caratteri indelebili vari e ricchi vissuti, porto placido delle sintesi, è senz’altro l’attitudine, la propensione alla lettura, alla scrittura. Il filosofo Carlo Sini sosteneva che “ciò che la parola non può dire si deve scrivere”. Si scrive per diletto, per passione, per emozione, per enucleare una certa questione, per placare l’ansietà che d’improvviso t’esplode nel petto. Scrivere è un modo produttivo per decelerare, per gettare un ponte conoscitivo con l’alterità, per nutrire l’anima affranta, delusa, fiaccata dalle tempeste. Scrivere, in fondo, è una valida terapia psicologica, che t’induce sulle sempiterne chine dell’introspezione, della ricerca, della crescita, del rapporto sincero con l’altro da sé.

Marcello Buttazzo – 1 ottobre 2017