di Paolo Vincenti –

“Sì o no, sì o no
onoooooo
Ne morirei…
Sì o no, sì o no
Onoooooo
Dimmi che mi vuoi…”

( “Sì o no” – Fiorello)

Sulla riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum il 4 dicembre 2016 si è detto ormai tanto. L’Italia si è spaccata in due, fra il fronte del sì e quello del no. Il campo di battaglia su cui i due schieramenti si fronteggiano è quello più che minato del futuro del Paese, della sua maggiore o minore stabilità. La riforma Renzi-Boschi presenta tante zone d’ombra, a parere di chi scrive, punti positivi e punti negativi, che si bilanciano quasi come i numeri del sì e del no che danno i sondaggisti. Più che positivo ritengo il nuovo rapporto fra Stato e Regioni che verrebbe fuori dalla Riforma, con un deciso accentramento di poteri a favore dello Stato. Verrebbe quasi del tutto cancellata l’improvvida riforma costituzionale scritta nel 2001, in senso federalista, dal Governo Berlusconi ostaggio della Lega Nord. Si supererebbero i conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni nella materia legislativa. Ritengo infatti necessario che alcune materie, come il commercio con l’estero, la tutela e la sicurezza sul lavoro, la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia, ma anche infrastrutture come porti, reti ferroviarie, aeroporti, siano di esclusiva competenza dello Stato. Uno Stato centralizzato è più forte ed è un punto di riferimento certo, più stabile, per quanti operano nel mondo dell’imprenditoria, delle professioni, del lavoro in genere. Ottima credo che sia l’abolizione delle Provincie. Le loro attribuzioni saranno spartite fra i comuni e le città metropolitane. Ma il depotenziamento delle Regioni e il taglio delle provincie sono punti abbastanza contestati.

Il punto invece in assoluto più contestato è la modifica del bicameralismo perfetto, poiché la riforma introduce un “bicameralismo differenziato”. La Camera dei deputati rimane l’unica ad esercitare pienamente la funzione legislativa, di indirizzo politico e di controllo sul Governo e i deputati i soli “rappresentanti della Nazione”. Il Senato diventa rappresentante delle istituzioni territoriali, esercitando funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica, e tra questi e l’Unione europea, partecipando quindi alla formazione e all’attuazione delle politiche comunitarie, verificandone l’impatto diretto sui territori. Anche a mio avviso, è questa la modifica più stupida e sbagliata. Chi scrive è sempre stato contrario ad una revisione del bicameralismo perfetto poiché esso caratterizza ab origine la nostra impalcatura costituzionale ed è connaturato con la nostra tradizione. E se la doppia camera ha favorito solo la “palude”, come lamenta chi sostiene le ragioni del sì, se ciò ha determinato dei tempi lunghissimi nell’approvazione delle leggi, questo è dovuto solo all’inerzia dei rappresentanti politici e alle loro becere diatribe,che portano ad un estenuante pingpong da una camera all’altra. Ben venga, in questo senso, la riforma elettorale Italicum, al netto di piccoli correttivi che vi saranno, perché permette al partito che vince le elezioni di governare con maggiore tranquillità.Ma modificare il Senato, ridurlo, senza decapitarlo del tutto, a cosa serve? Renzi dimostra di non essere pratico con le cesoie. Pota, tagliuzza, spunta, ma non recide.  Per ridurre i costi sarebbe stato sufficiente tagliare il numero di deputati e senatori, dimezzarlo, mantenendo inalterato l’assetto bicamerale. Invece, dalla riforma viene fuori un senato dimidiato, un “senaticchio”, i cui esponenti non sono nemmeno eletti direttamente. Novantacinque senatori rappresenteranno le istituzioni territoriali e saranno eletti dai Consigli regionali e dai Consigli delle province autonome di Trento e Bolzano; di questi 95, 74 sono eletti tra i membri dei medesimi consigli e 21 tra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori, nella misura di un sindaco per ogni territorio. L’elezione popolare diretta viene sostituita da un’elezione di secondo grado. Ma in questo modo andranno ad occupare gli scranni senatoriali proprio quegli esponenti degli enti locali, ossia la feccia della rappresentanza politica italiana, in particolare i consiglieri regionali, che tanta prova hanno dato in passato di corruzione e ignominia. Allora, con una mano si ridimensiona il potere delle Regioni, alla luce della loro dimostrata incapacità e inettitudine, specie a gestire i fondi europei, e con l’altra le si fa entrare in Parlamento? Addirittura dalla porta principale? Un alto tasso di incoerenza. Ci sarebbero poi 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica e resterebbero come Senatori a Vita gli ex-Presidenti della Repubblica. I senatori inoltre resterebbero in carica per tutta la durata del loro mandato, ma le durate dei mandati fra i vari enti locali sono differenziate, quindi ci sarebbe un continuo avvicendamento di facce da culo fra i banchi senatoriali. Insomma, un vero pasticcio. Più che apprezzabile invece il fatto che finalmente vengano spazzate via le Provincie. In questo caso,Renzi, con le sue forbici, si è dimostrato bravo chirurgo: quando non si può curare, bisogna amputare. Vero anche che la diminuzione dei costi sbandierata dal Governo sarà soltanto un modesto risparmio, come i numeri forniti dagli esperti dimostrano. Ogni riduzione è ben venuta, ma sarebbe stato molto meglio dimezzare tutti gli stipendi, intervenendo su privilegi e prebende di cui i politici usufruiscono fra la vergogna e lo schifo generali.

Forse il punto più positivo e meno contrastato della riforma è l’abolizione del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia del Lavoro), un carrozzone che da sempre tira avanti a spese e a danno dei contribuenti. Se si possono toccare i padri della patria senza peccare di lesa maestà, allora diciamo pure che questo è stato un grosso abbaglio dei nostri costituenti (i quali poi vengono mitizzati nelle rievocazioni celebrative dei vecchi bacucchi della scena politica, ma insomma erano degli uomini come tutti gli altri. Magari più colti dei politici attuali, certamente più preparati e con maggiore lungimiranza, con più spiccato amor patrio, con accentuato senso della propria missione, ma non ci vuole poi tanto ad essere appena un poco al di sopra di Gasparri e Brunetta, di Verdini e Barani). Nutro molti dubbi sull’innalzamento del numero di firme necessarie per presentare un ddl di iniziativa popolare (dalle attuali 50.000 a 150.000), e sull’utilità di introdurre il referendum propositivo o di indirizzo che permette ai cittadini di chiedere un intervento del Parlamento su una determinata legge. Se il fine ultimo è quello di scoraggiare letante associazioni in cerca di legittimazione, politici extra parlamentari e arruffapopolo vari, pronti ad assaltare lo strumento referendario, ciò mi trova d’accordo, perché in Italia si è sempre abusato di questo strumento. Se però il risultato nei fatti sarà quello di allontanare la cittadinanza attiva dalla politica, ciò sarebbe dannoso.

Tutti i giornali e i mezzi di informazione hanno trasformato il referendum in un voto politico, pro o contro Renzi. Personalmente, sono davvero disgustato dall’andazzo generale. La scena che si offre ai nostri occhi è  desolante. Già le premesse da cui si è partiti sono sbagliate. Su temi come quelli affrontati dal referendum ci dovrebbe essere la massima coesione fra le varie forze politiche. I partiti dovrebbero mettere da parte diatribe e beghe interne e collaborare insieme nell’esclusivo e superiore interesse del Paese. Invece, il referendum del 4 dicembre e le ragioni del sì vengono sostenuti solo da una parte politica, ossia la maggioranza del Partito Democratico, con i gruppuscoli di Area Popolare (Nuovo Centro Destra, Udc e Ala). Tutto il resto dell’arco costituzionale, compresa la stessa minoranza del Pd, è per il no, da destra a sinistra. Si è cementato un fronte compatto che va da Sel al Movimento Cinque Stelle, alla Lega Nord. Tutti pregiudizialmente contrari, con motivazioni diverse a suffragio della propria tesi, a seconda della brillantezza e della creatività dei guru dei vari partiti. Il no al referendum si è trasformato in una battaglia politica contro il Governo Renzi.  Quasi tutti i leaders politici avversi a Renzi dichiarano di votare no per mandare a casa il Premier. Quasi nessuno della cosiddetta “prima fila” entra però nel merito dei quesiti referendari, nelle trasmissioni politiche più seguite e nei tg, lasciandolo magari fare ai gregari, i politici di “seconda fila”, nelle trasmissioni di approfondimento, quelle che vanno la mattina o a tarda notte, quindi con meno audience. Ma se non sorprende la contrarietà del Movimento Cinque Stelle, che dell’opposizione fa la propria ragione di vita politica, e non sorprende nemmeno il no della Lega Nord, che supera quasi i grillini quanto a furore antigovernativo e odio per Renzi, lascia allibiti invece il no dei Sel e di Sinistra Italiana, che per ragioni di contiguità politica dovrebbero, se non appoggiare, almeno non avversare il Pd, e allibiti pure restiamo di fronte alla minoranza del Pd.  I tromboni sfiatati, da D’alema a Bersani, osteggiano il leader solo per motivazioni personali, per vendetta, per vili e stupide ripicche. E si illudono che gli elettori non lo capiscano? Ma la posizione più ridicola è quella di Forza Italia, che dall’iniziale collaborazione nazarena ha fatto una inversione a u, osteggiando ora il referendum senza se e senza ma. E questo è il meno. E rendere i forzitalioti i campioni dell’incoerenza e il loro leader il più grottesco pagliaccio della storia della repubblica italiana è il fatto che il centro-destra si è battuto per anni per queste stesse riforme. Berluscazz ha fatto delle riforme istituzionali il cavallo di battaglia della propria sciagurata esperienza politica. Ed ora? Niente! Si vota no, per raccattare una manciata di voti che salvino il partito dall’oblio cui è destinato.  E poi, quanto è sconfortante vedere i giudici costituzionali dichiarare qualsiasi fesseria a sostegno del no. Ma dove è la serietà dei professori universitari che scendono nell’agone politico facendo propaganda elettorale? E come può l’elettorato farsi imbecherare da tanta pseudo scienza, da siffatti millantatori politici se è vero, come dicono i sondaggi, che le ragioni del no stanno prevalendo nel Paese? Ma in Italia non si era tutti per le riforme, fino a qualche tempo fa? Non era forse “innovazione”, la parola d’ordine ad ogni livello, che apriva ogni convegno, intitolava ogni forum e tavola rotonda, fondava ogni ragion d’essere? Siamo dunque giunti al paradosso che chi si è sempre scalmanato per l’innovazione votino, e quelli come me scettici e tiepidi sui cambiamenti, votino sì. Buona parte di questa riforma non mi piace, ma non credo che votandola si possa andar peggio di adesso. Possiamo forse credere che nella palude in cui l’Italia riaffonderà dopo la sconfitta del referendum, in caso di vittoria del no, e la conseguente caduta del governo Renzi, qualcun altro trovi il modo di elaborare una nuova proposta di riforma costituzionale nei prossimi anni? Sì, no, non so. Si accettano scommesse.

Paolo Vincenti