di Oronzina Greco –

Prima del racconto, un’immagine

Una donna progetta e realizza un vestitino con una stoffa uscita fuori da un cesto, una stoffa a quadratini bianchi e rosa, delicati e incisivi al tempo stesso; lo realizza all’alba di questo nuovo millennio per la sua nipotina. Lo fa con la sapienza che ha nella testa e nelle mani, lo fa con grinta e caparbietà, con la sola forza di volontà di contro alla forza reale che manca.

E continua a realizzare e praticare il suo sogno, continua a scrivere la sua storia con gli atti della sua vita.

La donna progetta e costruisce, su richiesta insistente, su ripetuta sollecitazione della nipotina, una bambolina con tessuti, lane, fili usciti fuori da quello stesso cesto dove era riposta la stoffa a quadratini con cui era stato confezionato, qualche anno prima, il vestitino della bimba. Realizza la bambolina in questo nuovo millennio per i giochi della sua nipotina, lo fa con la sapienza che ha nella testa e nelle mani, lo fa facendosi aiutare, nella manualità fine di ago e filo, dalle mani di un’altra donna, sostituendo, cosi, quella forza che manca.

Usa il pensiero e gesti antichi e nobili per fare vestitini alla bambolina dai biondi capelli ricci e giacchine e pantaloncini per l’orsacchiotto del nipotino più piccolo che ha subito imitato la sorellina più grande con un tenero: “ Nonna, nonna mi fai una giacca per il mio orsacchiotto?”.

Gesti antichi e nobili, pieni di arte e di poesia, di testa e di cuore.

L’Arte nelle Mani

Una vecchia fotografia in bianco e nero. Una vecchia fotografia strappata nel centro con una linea quasi netta per il gioco-dispetto di una bambina. Una vecchia fotografia di gruppo, in cui sono ritratti, nel giorno del loro matrimonio, due sposi con delle ragazze. Una vecchia bella fotografia in bianco e nero, certo leggermente ingiallita ma in cui il bianco e il nero sono colori netti e gli altri sono colori che ti immagini. Freschi, vivaci nella severa e curata, sebbene povera, eleganza dei vestiti dei protagonisti.

Sono i vestiti della festa e i protagonisti sono in posa per una foto, per una foto che parla.

Una vecchia, bella fotografia tirata fuori da un cassetto e “guardata” con altri occhi “oggi”. Con altri occhi perché solo “oggi” i miei occhi hanno sollecitato e solleticato anche gli occhi della mente. Una foto vista altre volte nello scorrere le fotografie di famiglia, una vecchia bella fotografia in bianco e nero che racconta un sogno, che racconta un mondo, che presenta un universo-mondo.

Una vecchia fotografia per raccontare l’intuizione di un nuovo futuro possibile, una vecchia fotografia per raccontare desideri e scelte, possibilità e speranze, fatiche e amori, amicizie e rispetto; una vecchia fotografia per raccontare un pezzo di vita o, forse, una vita intera; per raccontare una, e dieci e forse infinite storie.

Hannah Arendt in “Vita activa” dice che il mondo è pieno di storie perché è pieno di vita ma mentre da ogni vita risulta una storia, da nessuna storia può risultare una vita.

Eppure le storie permeano la vita. Oppure è la vita che intreccia le storie e le storie vivono se raccontate.

La vecchia fotografia racconta di un mondo che vorrei tratteggiare con levità, che diventa “dolce per sé” come recita il titolo di un romanzo di Dacia Maraini e che mi viene inevitabilmente in mente ripensando ad un sogno di donne. A quel sogno che emerge dalla vecchia fotografia e dai racconti, che immagino, intuisco ancora presenti e attuali, delle donne di quella fotografia. Ma è di un sogno e di una vita in particolare che vorrei parlare e non so se le parole bastino o se io sia capace di parlarne.

E parlo del sogno, coltivato e realizzato, di una delle donne (la sposa) ritratte in quella foto e, però, anche di un sogno di ripiego perché quella donna (bambina negli anni trenta) non poté continuare a studiare, seppur bravissima nella scuola elementare, perché i soldi erano pochi e non si investivano negli studi delle donne. Quella bambina bravissima a scuola, il cui padre fu convocato dal direttore didattico e più e più volte contattato dalla maestra per perorare la causa della sua istruzione, non fu mandata a scuola dopo la licenza elementare. Ma quella bambina “prima della classe” non se ne stette con le mani in mano e dirottò il suo sogno su altri scenari possibili, imparò a cucire , divenne brava anche in quello, ebbe la sua prima macchina da cucire a quindici anni e divenne padrona e imprenditrice della sua vita. Nella sua casa paterna, nuvole di ragazzine pressoché di sua pari età, imparavano il mestiere, l’arte nobile del modellare stoffe e abbinare colori, l’arte antica e modernissima della manualità leggera e lieve ma decisa, sapiente e capace.

Per le “discepole” (le ragazze della foto) era l’autorità indiscussa, il sapere creativo, la saggezza pratica; era la “mescia” (la maestra) e in questo nome era racchiuso tutto: il rispetto, l’affetto, la voglia di riuscire come lei, la consapevolezza di valere, la gioia dell’amicizia profonda e sincera, la freschezza e l’allegria dell’adolescenza.

Tutto questo dice quella vecchia, bella foto e quante altre “cose” è, ancora, quella foto; quanti momenti,

quanto lavoro, quanti drammi e risate, quante attese e quante speranze racconta!

E, io, in tutto questo ci ritrovo valori che emozionano ma fanno anche riflettere, ritrovo un mondo “antico” ma modernissimo. Ritrovo una donna che ha saputo “costruire” dal nulla futuro e lavoro e famiglia, ritrovo donne volitive che hanno lottato e si sono affermate. Donne che, da un certo momento in poi, hanno “premuto” perché la storia fosse riscritta ed è Virginia Woolf che in “Una stanza tutta per sé”, volgendo il suo interesse verso la storia delle donne, si chiede perché non si possa “aggiungere un supplemento alla storia” intendendo che le donne forniscono qualcosa in più ma nello stesso tempo completano, che sono superflue e indispensabili. Superflue come il dolce a fine pranzo, indispensabili come il pane caldo e fragrante, complemento di ogni banchetto.