di Antonio Stanca –

Nel 2019 il Premio Nobel per la Letteratura è stato assegnato a Peter Handke, scrittore austriaco nato a Griffen, Carinzia, nel 1942 da padre austriaco e madre slovena. Molte critiche suscitò quel Nobel a causa di presunte posizioni politiche assunte dall’Handke riguardo alle guerre jugoslave ed ai gravi episodi che si erano verificati nel loro corso. Si è difeso Handke dichiarando che per quanto accaduto nelle aree in questione la sua non era stata la posizione di un politico ma quella di uno scrittore. Tra l’altro il suo interesse, anche nelle opere, per le regioni balcaniche risaliva allo stretto legame che aveva vissuto con la madre slovena della quale era stato prematuramente privato perché morta suicida nel 1971.

Handke aveva studiato giurisprudenza a Praga ma senza giungere alla laurea ché altri interessi erano prevalsi. Aveva cominciato a scrivere per il teatro e poi sarebbe passato alla narrativa, alla poesia, alla saggistica, ai diari, alla sceneggiatura e regia cinematografiche. Spirito inquieto, ribelle, insofferente delle regole, delle convenzioni, si è applicato in molti campi, ha sperimentato molte forme espressive perché importante era per lui dire di quanto della vita, del pensiero, del sentimento è più intimo, più segreto, al punto da non poter essere reso con parole ma solo indicato con colori,suoni, immagini, movimenti, gesti, sguardi, silenzi.Tanto profondo era il suo sentire da rimanere senza voce.

Molto polemico era stato, quindi, l’Handke dei primi lavori riguardo alla generazione di scrittori che lo aveva preceduto. Uno sperimentatore, un avanguardista aveva voluto essere. Ad una scrittura che si combinava con la visione, che diventava immagine, aveva pensato allora e per questo aveva collaborato con noti registi nella realizzazione di film a volte tratti da suoi romanzi. Erano gli anni ’60 e molto altro avrebbe fatto lo scrittore, molto tradotto, molto letto, molto noto sarebbe stato, “con ingegno linguistico la sua opera avrebbe esplorato le periferie e le specificità dell’esperienza umana”, si disse al momento del Nobel. Vasta, immensa sarebbe diventata la sua produzione, di molto si sarebbe composta ma si sarebbe pure assistito ad una evoluzione riguardo ai modi espressivi. Col tempo Handke avrebbe rinunciato a quelle posizioni intolleranti della tradizione che avevano caratterizzato la sua prima fase e si sarebbe accostato a forme più concilianti, più inclini alla regola. Non sarebbero, però, completamente scomparsi, nelle opere di questo periodo, certi atteggiamenti, certi aspetti che erano stati di prima.Sarebbe stato sempre possibile rintracciare il motivo essenziale, fondamentale per questo autore, la ricerca, cioè, dell’identità attraverso l’esame, l’osservazione dell’interiorità. Tanti, tantissimi suoi personaggi sono rimasti memorabili perché da lui rappresentati nello stato di ricercatori, di giudici di sé stessi.

Così succede pure in La donna mancina, romanzo del 1976 che ora è stato ristampato dalla Guanda Editore nella serie “Narratori della Fenice” con la traduzione di Anna Maria Carpi. Nel 1978 lo stesso Handke aveva diretto il film tratto da questo romanzo. Già allora era cominciata la fase del recupero, del rientro negli schemi della tradizione ma, come s’è detto, non erano stati del tutto messi da parte i temi e i modi di quell’inizio così polemico.

Indefiniti, indeterminati rimarranno, infatti, fino alla fine i tempi, i luoghi del romanzo, vaghi i contorni dei personaggi, ridotto al minimo, all’essenziale il loro numero e pure i loro pensieri, le loro azioni. Ci sarà, però, nonostante tutto una trama che si svolgerà, che avrà il suo percorso, che sarà sempre possibile riconoscere, seguire, capire.

Tra tanti elementi diversi la protagonista, Marianne, rientrerà nella serie dell’eterno personaggio di Handke impegnato nella ricerca di sé stesso.Lei lo farà nella sua casa, dove ha deciso di rimanere col bambino e senza il marito.Riprenderà il vecchio lavoro di traduttrice, rinuncerà alla compagnia, all’affetto, all’amore di uomini importanti e si abbandonerà a lunghi periodi di solitudine, riflessione, meditazione, silenzio. Sola in casa la fa vedere lo scrittore, sola in città, per le strade, nei boschi,in tanti discorsi e il bambino, quando c’è, quando si parlano, diventa un mezzo per chiarirsi meglio con sé stessa. Incompresa, rimproverata sarà dal marito, dall’amica ma niente la distoglierà dal suo proposito di continuare in uno stato di solitudine appena interrotto dal piccolo figlio. Un altro esempio è il suo di negazione, di rivolta contro le diffuse condizioni di vita, contro i costumi generalmente accettati, un altro dei tanti esempi che ricorrono nelle opere dello scrittore. A volte Marianne parla per gesti, per sguardi, altre ha visioni, altre fugge da situazioni che lei stessa ha preparato: è strana, diversa, “mancina”, è come l’Handke di sempre, quello che nell’irregolarità vuole cogliere la verità di sé e degli altri.

Antonio Stanca