di Stefano Minisgallo –

La carriera di Gian Maria Volonté è unitariamente riconosciuta come una delle più prolifiche del panorama cinematografico italiano e non solo. All’immenso talento artistico dell’attore si è sempre unita una forte coscienza civile che ne ha determinato un collocamento particolare nello spettro attoriale italiano. Perché Volonté appartiene a quelle pagine di storia filmica del paese che riportano altri illustri nomi ma dai quali, in un certo qual modo, si è sempre distinto.

            È stata la forte coscienza politica a determinare in larga parte le scelte recitative che ha compiuto. Si cita spesso una dichiarazione di Volonté che volge proprio in questa direzione: la ricerca di ruoli che potessero in qualche modo rappresentare i rapporti di forza in essere e i possibili sovvertimenti. Molti sono stati i ruoli che – a ragion veduta – hanno contribuito a creare un’iconicità attorno alla figura dell’interprete. “Indagini su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, “Sbatti il mostro in prima pagina” e “La classe operaia va in paradiso” sono forse i tre film che hanno più di altri costruito questa immagine, ma bisognerebbe riferirsi all’intera filmografia per riportare il quadro di insieme di personaggi reali e fittizi che hanno attraversato la carriera dell’attore.

            Ma è il caso di estrarre degli elementi parziali per ricondurli poi a quella dimensione totale, è necessario introdursi in particolari manifestazioni significanti. È disponibile, ancora per poco, sulla piattaforma streaming della Rai, un film che viene probabilmente considerato un ruolo minore della carriera di Volonté: “Faccia a Faccia”. In questo western – diretto da Sollima e co-interpretato da Tomas Milian – l’attore di origini piemontesi interpreta il ruolo di un professore costretto a riparare negli stati del sud degli USA a causa di una precaria condizione di salute. Poco dopo esservi giunto, viene rapito da un bandito (Milian).

            Si tratta di un incontro che modifica alla radice il comportamento del professore: il timido e mite cattedratico si trasforma quindi in un bandito, rivela nel corso dell’opera una predisposizione alla violenza fisica e alla sopraffazione, compiendo un percorso inverso rispetto a quello del personaggio di Milian che nello svolgimento del film si ravvede compiendo un percorso di espiazione della propria colpa dopo la morte di un ragazzino durante una rapina. Il confronto tra i due opposti percorsi che compiono i personaggi, oltre a mettere in luce le capacità dei due interpreti disvela i funzionamenti di determinati meccanismi di forza che agiscono all’interno della società.

            Durante quella che si può considerare la sequenza più intensa del film, Volonté è impegnato a torturare una spia che si rivela essere un suo ex allievo e che rimprovera al professore di essere “civile tra i civili e violento tra i violenti” di adattarsi quindi al clima come fosse un parassita. Volonté risponde che la violenza è inciviltà da aborrire quando a praticarla è l’individuo, mentre esercitare la violenza in senso collettivo può condurre a sovvertire i rapporti di forza. L’intero impianto del film si gioca sull’opposizione tra i due paradigmi che l’interprete rappresenta: laddove il professore si rassegnava a lasciare la sua cattedra a causa di un fisico cagionevole ora c’è un bandito che esercita la violenza fisica e la sopraffazione; l’uomo che si fregiava di appartenere al consesso civile e quindi di assistere il bandito che poi lo rapirà viene sostituito da un capobanda tirannico e privo di ogni forma di pietas.

            È come se ad essere messi in scena fossero, quindi, due personaggi legati tra loro da questa contrarietà nei loro comportamenti e dall’estetica del protagonista, sebbene eserciti la violenza in forma fisica, la maggiore sopraffazione che egli sente di praticare sugli altri è quella intellettuale, è la sua cultura superiore a porlo al di sopra degli altri.

            Volontè dimostra così di apportare e in maniera rilevante un’aggiunta ai suoi personaggi, un’aggiunta che nella terminologia barthesiana sarebbe il senso ottuso.  Un’addizione in grado di rendere ai ruoli un’unicità tale da essere praticamente irreplicabili ma allo stesso tempo di trasmettere un messaggio intellegibile al di fuori della testualità stessa dell’opera.

Stefano Minisgallo