di Antonio Stanca –

Lo scorso giugno in allegato a “Il Fatto Quotidiano” è uscito il breve volume Cosa nostra spiegata ai ragazzidi Paolo Borsellino.

Borsellino è il nome del famoso magistrato ucciso, insieme agli uomini della scorta, nella strage di via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. Nella prefazione al volume il fratello Salvatore si sofferma ad illustrare com’era avvenuta la loro formazione, l’importanza che per i figli aveva avuto la madre che, nella loro casa in Sicilia, li aveva educati, richiamati, istruiti ai principi, ai valori della verità, della giustizia, come tutti i fratelli si erano convinti del bisogno di diffondere, affermare tali principi, come vittima di questo impegno era stato prima Giovanni e poi Paolo. Questi pensava, infatti, che per eliminare la mafia non fosse sufficiente combatterla con i mezzi forniti dalla legge poiché non si trattava di un fenomeno limitato, contenuto ma esteso, diramato oltre ogni previsione. Era diventato un fenomeno di costume e la sua fine poteva venire soltanto dalla fine di quel costume e questa dalla fine del tempo e della generazione che lo avevano diffuso. Provvedere si doveva alla formazione di una nuova generazione, operare in modo che i giovani di oggi fossero il tempo, il costume di domani, che imparassero a pensare, a fare diversamente. Un cambio di generazione doveva essere preparato e solo questo avrebbe cambiato quanto finora c’era stato. 

Anche in questo senso si era impegnato Paolo Borsellino, aveva spesso incontrato i giovani delle scuole e con loro si era soffermato a chiarire le difficoltà del suo lavoro ed a richiamarli, riportarli ad una visione, ad una concezione della vita liberata dal problema della mafia, non disposta a concederle lo spazio che sempre aveva avuto.

Il libretto uscito con “Il Fatto Quotidiano” contiene una lunga “lezione” tenuta dal giudice agli studenti dell’Istituto Professionale per il Commercio “Remondini” di Bassano del Grappa. Era il 26 Gennaio del 1989. Lo aveva invitato il professore, suo amico, Enzo Guidotto e a tanta distanza dalla sua Sicilia si era recato per obbedire a quello che sentiva ormai come un impegno al quale assolvere, educare alla legalità, farla rientrare tra gli interessi dei giovani, ridurre, far finire l’illegalità. Così inizierà il suo discorso in quell’occasione, chiarirà che cultura della legalità significa rispetto delle leggi e inviterà a capire come la scuola, importante organo preposto alla formazione dei giovani, non poteva non far rientrare tra i suoi insegnamenti quello relativo alla conoscenza e al rispetto delle leggi. Tra le discipline scolastiche doveva esserci anche questa, della cultura dei giovani doveva far parte anche questa. E tanto importante doveva essere da rappresentare per loro un principio inalterabile, un comandamento che non ammetteva, non accettava, non perdonava nessuna omissione.

Si è dilungato, quindi, il giudice ad illustrare l’origine della mafia, la sua presenza che all’inizio era apparsa positiva ma che poi si era guastata fino a diventare molto pericolosa. Ha detto dei vantaggi economici che alla mafia erano derivati da quando era interessata al traffico di sostanze stupefacenti, dell’espansione del mercato che questo commercio aveva richiesto, dei problemi che ne erano derivati alla Magistratura e alla polizia essendo rimasti gli unici organi preposti al suo controllo. Unici di fronte ad un problema che ha assunto dimensioni incalcolabili.

Sono seguite le domande che alcuni dei ragazzi hanno rivolto al giudice e che lo hanno portato a spiegare ulteriori aspetti del fenomeno mafioso. Si è concluso, quindi, l’incontro con l’invito di Borsellino a non disperare, a credere possibile un cambiamento. 

Per lui questo non c’è stato ma a far sperare è rimasto il suo sorriso alto in ogni parte d’Italia!

Antonio Stanca