di Antonio Stanca – La veranda è un breve racconto dello scrittore statunitense Herman Melville. Lo pubblicò nel 1856 nella raccolta Racconti della veranda ed ora è stato ristampato dalla casa editrice Elliot di Roma con un’introduzione e la traduzione di Carlo Alberto Montalto.

Melville nacque a New York nel 1819 e qui morì nel 1891. Terzo di otto figli, perse il padre quando era ancora molto giovane e, interrotti gli studi, si mise alla ricerca di un lavoro. S’imbarcò come mozzo su una nave che andava a Liverpool e cominciò così quella sua vita avventurosa fatta di servizio prestato su navi che percorrevano gli oceani e di peregrinazioni compiute sulla terraferma. A ventisette anni, nel 1846, cominciò a scrivere e i suoi primi romanzi dicono di questa vita, delle scoperte che gli aveva procurato, dei mondi lontani che gli aveva fatto conoscere, della gente primitiva che aveva incontrato, dei problemi sofferti dalle popolazioni indigene, delle difficili situazioni che si creano a bordo di una nave, delle gerarchie che vi si stabiliscono.

Ebbe successo con queste opere di genere avventuroso che proseguirono fino al 1850 quando Melville aveva trentunanni e già prima, col romanzo Mardi del 1849,aveva mostrato di voler scrivere di situazioni diverse, di essere interessato a quei problemi filosofici, esistenziali che sarebbero stati della sua maturità artistica.

L’incontro, l’amicizia con lo scrittore pure statunitense Nathaniel Hawthorne, il famoso autore de La lettera scarlatta del 1850, lo avevano allontanato dalla prima tendenza puramente realistica e a volte polemica e stimolato a cogliere quanto avveniva all’interno dell’anima, a confrontare la realtà con l’idea, la verità con la fantasia, la vita con il sogno, la materia con lo spirito, la ragione con l’evasione, la regola con l’eccezione.

Insieme ad Hawthorne Melville farà parte del gruppo di scrittori del cosiddetto “rinascimento americano”, movimento letterario e artistico che si verificò nell’America degli anni ’50 dell’‘800 e che comprese autori tanto importanti da far attribuire loro la nascita della tradizione letteraria americana. Divisi furono questi autori tra i “trascendentalisti” quali Ralph Emerson ed Henry Thoreau, che nelle opere esprimevano la fiducia nel piacere, nella gioia della vita, nella forza, nella bellezza della natura, che s’immedesimavano con quanto di positivo da questa proveniva, ed altri che si mostravano piuttosto incerti, che esitavano perché non convinti di tanta positività e inclini a valutare le ombre, i pericoli che vi si potevano nascondere.

Tra questi autori accanto a Nathaniel, Hawthorne e ad Emily Dickinson c’è pure il Melville della seconda maniera, quello dei romanzi Mardi (1849), Moby Dick (1851), e Pierre o delle ambiguità (1852), e di altre opere tutte improntate ad un confronto continuo, estremo tra il piacere e il dolore della vita, la felicità dei sensi e l’angoscia dello spirito,i richiami, i bisogni del corpo e le tenebre dell’anima.

E’ questa, in effetti, la condizione propria dello spirito americano eternamente diviso tra la gioia, il piacere di godere di una vita che avviene in una “terra promessa” e l’amarezza, la paura di non poterne essere pienamente sicuri.

Questo confronto, questo scontro saranno vissuti pure dal protagonista de La veranda, racconto che rientra nella seconda fase della produzione melvilliana. In esso l’io narrante, col quale l’autore s’identifica fin dalle prime pagine, dice che nel 1850 ha deciso di lasciare New York per trasferirsi in una fattoria presso Pittsfield, nel Massachussets, e di aver voluto arricchire la nuova casa facendo costruire una veranda nel lato nord affinché, seduto in essa, possa ammirare a suo piacimento e per lungo tempo i monti più alti del Massachussets che si ergevano di fronte con le loro cime, le loro valli, i loro prati, i loro pascoli, i loro colori, le loro luci, le loro ombre. Avrebbe potuto soddisfare i bisogni del corpo e quelli dell’anima contemplando tanta altezza, tanta ampiezza, tanta varietà, tanta bellezza. Ma una piccola luce scorta in alto tra i monti gli ha rivelato che altre persone vi sono lassù in una casa solitaria, lo ha convinto che quelle persone, la loro vita sono migliori di lui, della sua vita e che se raggiungesse quella casa potrebbe godere di quell’altra vita. Solo così, pensa ormai, sarebbe andato oltre i limiti della sua condizione, avrebbe superato il suo stato, sarebbe diventato partecipe di un incanto, ne avrebbe goduto per sempre. Raggiungere quella casa sarebbe significato conoscere quanto ancora non sapeva, avere quel che gli mancava.

Pur con molte difficoltà la raggiungerà e vi troverà la bella fanciulla Marianna che da anni, da tanti anni, tesse, cuce, svolge i lavori domestici mentre il fratello va fuori a procurare la legna, il cibo e quant’altro loro serve. Scoprirà che anche Marianna aveva sognato di ottenere quanto non era stato possibile e che anche lei aveva creduto di poterloavere raggiungendo quella fattoria che come lui vedeva dalla stessa casa giù a valle. Sembra una favola, è una favola e profondo è il suo significato allegorico. Per i due personaggi de La veranda non si era trattato, però, di una sconfittabensì di un invito a riconoscere i propri limiti, ad accettare la propria condizione umana, a non credere di poter assumere una dimensione soprannaturale. Era statalaprova che esistono delle regole, delle leggi oltre le quali non è possibile andare anche a costo di soffrire. Come era successo per Achab in Moby Dick così sta succedendo ora per loro: respinte erano state certe ambizioni, impossibili si erano rivelate.

Ci vorrà molto tempo, quasi mezzo secolo, perché le opere del secondo Melville siano riconosciute nei loro valori, nei loro significati altamente morali, profondamente umani. Difficile è stato liberarsi dall’idea di un Melville scrittore di viaggi e accettare quella di un Melville attento osservatore dell’animo umano, profondo conoscitore dei segreti dello spirito, abile compositore d’immense, fantastiche allegorie della vita,sicuro padrone di un linguaggio infinitamente ricco e prezioso.

Tra i grandi della letteratura moderna è ora Melville!

Antonio Stanca