di Antonio Stanca –

Matteo Righetto è nato a Padova nel 1972, ha quarantanove anni, insegna Letteratura Italiana alla Ca’ Foscari di Venezia ed è un noto giornalista e scrittore italiano. Col giornalismo ha iniziato a scrivere, l’attualità culturale e sociale è stata il suo interesse maggiore. Nella narrativa ha esordito nel 2012, a quarant’anni, col romanzo Savana Padana. Altri sono seguiti e lo hanno reso noto anche in ambito straniero poiché molto tradotti. Alcuni sono stati trasposti in film alla cui realizzazione ha collaborato anche lo scrittore. Pure di teatro si è interessato. Impegnato si è mostrato a fare dell’attività letteraria e generalmente artistica un modo per contribuire all’educazione, alla formazione dei giovani e più esternamente delle masse. A tal fine molto semplici, molto comuni sono stati gli ambienti, i personaggi delle sue narrazioni, molto facile il loro linguaggio, di carattere morale, sentimentale il loro significato. Il rapporto con la natura, in particolare con la montagna e con quanto c’è, avviene intorno ad essa, è il motivo ricorrente nelle sue opere. Lo si può rintracciare ovunque ed anche nei personaggi ricorrono alcuni tipi poiché dallo scrittore ritenuti idonei ad ottenere certi effetti, a raggiungere certi scopi.

Al 2013 risale La pelle dell’orso che quest’anno è stato ristampato per conto del Gruppo Editoriale GEDI nella serie “Storie di Montagna”. Nel 2016 il romanzo ha avuto una trasposizione cinematografica. In esso ritornano i luoghi preferiti dal Righetto, i loro abitanti, i loro piccoli paesi ai piedi, alle pendici della montagna, i loro boschi, le loro foreste, i loro fiumi, i loro torrenti. Protagonista è il giovanissimo Domenico, un ragazzo di tredici anni che va a scuola e vive col padre Pietro, un falegname che, dopo la morte della moglie, ha preso la via dell’osteria, dell’alcol, è diventato pigro. Il rapporto tra padre e figlio è stato sempre difficile poiché scontroso, scostante nei riguardi del piccolo è stato sempre Pietro, non gli si è mai mostrato vicino, comprensivo, non gli ha mai ispirato un senso di aiuto, di protezione. Buono era stato il rapporto con la madre, affettuosa gli era sempre stata e la sua perdita lo aveva lasciato solo in casa. Anche fuori la timidezza gli procurava problemi. Era “un ragazzino magro e smunto con le lentiggini”, difficile gli era tutto anche lo studio e Maria, la bella ragazza di poco più grande, della quale si era innamorato, non lo degnava di uno sguardo. Tante limitazioni, tanti problemi lo facevano soffrire ma lo portavano pure a sognare, a immaginare una vita diversa, a pensare di poterla raggiungere e viverla in posti, tra persone migliori di quelle di adesso. Tanti sogni nutriva mentre camminava tra i boschi o pescava al torrente o guardava estasiato le cime lontane delle Dolomiti, il sole che tra esse sorgeva o tramontava in un tripudio di luci e di colori. Grandi cose pensava, grandi azioni, grandi imprese ed una di queste gli sembrerà di poterla vivere quando il padre gli dirà di aver fatto una scommessa importante, di poter vincere con essa molti soldi e stare bene per sempre insieme a lui. Aveva scommesso di essere capace di uccidere il pericoloso orso che da tempo si aggirava intorno ai loro paesi e che tanta paura e tanto danno aveva provocato. Gli aveva detto pure che con lui voleva dare la caccia all’animale, che con lui voleva mettersi alla sua ricerca tra i boschi e sfidare tanti pericoli. Contento, inorgoglito si era sentito Domenico della fiducia, della stima espressa dal padre nei suoi riguardi, lo aveva visto diverso da come sempre era stato. Si era, quindi, dichiarato pronto a seguirlo anche se non si era reso conto dei rischi ai quali andavano incontro. L’eccitazione, però, l’entusiasmo era tanto da non farglieli valutare. Si sarebbe accorto quando soli sarebbero rimasti, lontani da tutto e da tutti, persi nel fitto della boscaglia ed esposti all’assalto dell’orso. Insieme al padre avrebbe camminato molto, si sarebbe adattato ad una vita diversa da quella di casa, avrebbe sofferto il freddo, la stanchezza, il dolore, le ferite ai piedi e alle gambe. Lontano gli sarebbe diventato tutto e ancora una volta il ricordo della madre, della sua immagine, della sua voce, sarebbe tornato a consolarlo.

Ma quando sembrava che la loro missione stesse per finire miseramente, per fallire, ci sarà un risvolto positivo, scopriranno l’animale, lo combatteranno e sarà Domenico a vincerlo sparandogli in testa come il padre gli griderà. Pietro morirà in quello scontro e a Domenico spetterà, con l’aiuto di un vecchio amico del padre, il compito di caricare il corpo dell’orso su una slitta di legno appositamente preparata e portarlo via, mostrarlo ai testimoni della scommessa, mostrare che l’aveva vinta. La fatica, però, che gli aveva richiesto era stata tale da superare le sue forze, stremarlo, farlo ammalare e morire prima che ricevesse il compenso per l’impresa compiuta. Ma più importante era stato per Domenico trovarsi, vivere insieme al padre, sentirlo finalmente come tale, sentirsi degno di sentimenti quali l’affetto, l’amore. Questi erano andati oltre la sua morte, l’avevano superata e ancora una volta avevano fatto dell’opera del Righetto un messaggio, un invito a riscoprire il bene perduto.

Antonio Stanca