di Antonio Stanca –

La giornalista e scrittrice spagnola Aroa Moreno Durán nel 2017 ha esordito nella narrativa col romanzo La figlia del comunista, che l’anno scorso è comparso in Italia per conto di Guanda col titolo Cose che si portano in viaggio. La traduzione era di Roberta Bovaia.

La Durán è nata a Madrid nel 1981, si è laureata in Giornalismo all’Università Complutense della sua città e suoi primi scritti, oltre a quelli per i giornali, sono stati in versi, due raccolte di poesie. Ha scritto poi biografie di personaggi illustri ed ha continuato con i giornali finché nel 2017 non è venuto il suddetto romanzo. Con questo ha vinto il Premio Critical Eye Award for Narrative. E’ ambientato in Germania, nella Berlino del muro. La scrittrice vi è andata per documentarsi su come si era vissuto allora, in particolare nella Berlino orientale dove si svolge molta parte della narrazione. Già in quest’opera la Durán mostra quello che sarà per lei un tema importante, sul quale tornerà più volte, le donne, la loro figura, la loro condizione, la loro vita. «Le donne per molto tempo sono state relegate nella storia, sotto l’uomo, è tempo di dare loro una voce perché la storia si completi», dirà una volta. Una donna, Katia, è la protagonista del romanzo, sua è la voce che narra, che riferisce di tutto quanto l’opera contiene.

Katia è figlia di Manuel e Isabel, fuggiti dalla Spagna dopo la guerra civile e rifugiatisi a Berlino presso una comunità di immigrati spagnoli. Qui sarebbe nata lei e poi la sorella Martina. Il padre era un fervente comunista, incaricato di sorvegliare la gente di quel sobborgo, controllare e riferire alle autorità di eventuali pericoli o sospetti.  

Tranquilla anche se modesta è la vita della famiglia, delle ragazze, nella Berlino dell’Est. Tra la casa, la scuola, lo studio e qualche amicizia impiegano il loro tempo. Sono molto legate tra loro ed ai genitori, che si frequentano con i connazionali della comunità.

Katia, divenuta quasi ventenne, ha le sue prime esperienze amorose, fa le sue prime uscite, torna a casa più tardi. Di lei si innamora perdutamente un giovane tedesco, Johannes, venuto dalla Berlino occidentale dove vive con la famiglia e studia ingegneria. Anche Katia è ora all’università. Sono gli anni ’70 e mentre dice di sé dice pure, nel romanzo, di quanto avviene in quella Germania, in quella città divisa, controllata, sorvegliata. Lo dice da vicino, fa vedere come vivono quella situazione le persone che ci abitano, cosa pensano, come ne parlano, cosa si attendono. E’ una storia che sembra farsi attraverso chi la narra, attraverso le case, le strade e soprattutto le donne che provvedono ai bisogni domestici dei vecchi genitori, dei mariti, dei figli. Questi ambienti solidali, questa umanità vicina, gli affetti della sua casa Katia lascerà una notte improvvisamente, nel 1971, per fuggire e raggiungere Johannes che l’attende nel suo paese. Sarà una fuga clandestina, avventurosa, pericolosa, molti saranno i disagi, gli ostacoli che la ragazza incontrerà, molte volte sarà assalita dal rimorso, dal pentimento. Aveva appena vent’anni e dall’intimità della sua famiglia si era staccata per trovarsi tra luoghi sconosciuti, situazioni inquietanti, persone sospette, tra tutti i problemi che poteva comportare allora il passaggio da una all’altra Germania. Spaventata, sfinita, ferita, ammalata arriverà da Johannes per iniziare quella vita che aveva immaginato nuova, diversa. Lui finirà gli studi, andrà a lavorare in azienda, tornerà la sera, lei starà nella casa dei suoceri, insieme a questi. Non ci saranno molte cordialità, molte gentilezze tra loro, sola comincerà a sentirsi, sola si vedrà costretta a vivere il suo tempo, ridotta sarà la sua vita a quanto richiede la casa. Passeranno molti anni, circa venti, Katia e Johannes si sposeranno, avranno due bambine, una casa propria ma tra loro non si scioglierà quel nodo che col tempo si era formato perché diversi si erano scoperti negli interessi, nelle intenzioni, nelle aspirazioni, nel carattere. Si erano frequentati per così poco tempo prima di mettersi insieme che non si erano conosciuti. Lo avevano fatto dopo, dopo Katia aveva capito di aver sbagliato, era diventata preda dei pensieri, del rimorso, del rimpianto per aver abbandonato la sua casa. Le sembrava di aver tradito i suoi familiari tra i quali così sicura, così serena era vissuta per tanto tempo. Fuggendo aveva negato il bene del quale a lungo aveva goduto e punita si vedeva ora dalle incomprensioni, dalle sofferenze, dalle angosce che dalla nuova situazione le provenivano. Un tormento, un dramma vero e proprio diventerà il suo quando la separazione da Johannes la destinerà a stare con le figlie nella casa dei genitori di lui, a non poter tornare a Berlino, nella sua casa, quando da una breve visita a questa saprà, vedrà che la madre è molto ammalata, che è assistita dalla sorella, che il padre è morto in carcere dove era finito perché accusato di non aver saputo controllare la condotta della figlia lui che era incaricato di controllare quella delle persone del posto.

Si arriverà al 1989, viene abbattuto il muro di Berlino, la Germania torna nazione unica, ci si incontra, ci si ritrova, i tedeschi sono di nuovo tutti. Tra tanta festa sola e addolorata è Katia: insieme alla storia è trascorsa la sua vita ma diversamente si è conclusa. Unite le ha fatte procedere la scrittrice. Di una nazione, di un popolo ha detto mentre diceva di una donna. Ampio, esteso, completo è stato il suo sguardo, non ha trascurato nessun particolare. Ogni risvolto di quell’anima ha colto, ogni esitazione, ogni perplessità. Nel suo intimo è andata, ha fatto vedere come Katia non era del tutto convinta di stare meglio in altri posti, non era libera dalla paura di sbagliare, come mentre fuggiva pensava di tornare indietro. Questi presentimenti, dubbi, sospetti diventeranno la sua verità, la sua realtà quando delusa sarà della vita con Johannes, estranea a lui si scoprirà, sola rimarrà e lontana per sempre dalla sua gente.

Di una donna sconfitta narra il primo romanzo della Durán: la vita l’ha lasciata sola, l’ha travolta, i tempi, gli ambienti sono stati ostili ma non hanno impedito che il suo esempio possa servire, possa insegnare a fare meglio, ad avere di più. Questo vorrà la scrittrice dalle sue donne, che superino la loro condizione, diventino capaci di fare, di esporsi, di lottare, imparino a non aver paura. Katia non ce l’ha fatta ma il suo era solo l’inizio.

Antonio Stanca