di Antonio Stanca –

Pubblicato nel 1973 era diventato un film omonimo già nel 1975 e mercoledì scorso, 24 Febbraio, è stata trasmessa su Rai 1 in prima visione assoluta la versione del noto regista canadese Christian Duguay. Si tratta del romanzo Un sacchetto di biglie che ultimamente è stato anche proposto in allegato ai Periodici del Gruppo Mondadori, serie “I libri di Sorrisi”. La traduzione è di Marina Valente. Autore lo scrittore francese, di origine ebrea, Joseph Joffo. Nato a Parigi nel 1931 è morto a Saint-Laurent-du-Var, Francia meridionale, nel 2018. Era stato il suo primo romanzo e lo aveva scritto a quarantadue anni durante un periodo di convalescenza seguito ad un incidente sportivo. Di romanzi ne avrebbe scritto altri, anche racconti per bambini avrebbe scritto ma Un sacchetto di biglie sarebbe risultata la sua opera più famosa, la più tradotta, la più apprezzata ancora oggi.

È un romanzo autobiografico, lo scrittore ricorda gli anni della sua infanzia che furono anche quelli della seconda guerra mondiale. Allora la famiglia viveva a Parigi dove il padre, ebreo, faceva il parrucchiere in un negozio situato nel diciannovesimo distretto della città, un quartiere popolare. I figli maggiori, Albert ed Henri, lo aiutavano nel suo lavoro mentre i più piccoli, Joseph e Maurice, frequentavano la scuola elementare. Scoppiata la guerra, invasa la Francia dai tedeschi, cominciata la persecuzione degli ebrei, la loro deportazione, diffusosi un clima di paura, di terrore, papà Joffo nel 1941 aveva deciso che fuggissero tutti da Parigi: prima aveva mandato Albert ed Henri a Sud della Francia, presso parenti, poi a Joseph e Maurice aveva spiegato come raggiungerli ed infine se n’era andato anche lui con la moglie. Entrambi erano fuggiti, a loro tempo, dalla Russia degli zar, a Parigi si erano conosciuti, sposati e stabiliti. L’idea, il senso della fuga stava alle origini di quella famiglia, faceva parte della sua storia, della sua vita ed ora veniva continuato anche dai figli più piccoli. Ora Joseph aveva dieci anni e Maurice dodici, erano bambini quando avevano iniziato il loro viaggio verso i fratelli lontani, verso la salvezza. Il padre li aveva forniti di una certa somma di denaro ma non sarebbe stata sufficiente, si sarebbero adattati alle più diverse circostanze, avrebbero svolto i lavori più umili, avrebbero sopportato tante privazioni, si sarebbero mossi a piedi, in treno, in autobus o con mezzi di fortuna. Molti saranno i posti, campagne, montagne, fiumi, boschi, città, paesi, borgate, villaggi, fattorie, case, locande, che conosceranno, molte le strade, buone e cattive, grandi e piccole, che percorreranno, le persone che incontreranno, le pene che soffriranno, molti i pericoli che correranno. Neanche dopo che avranno raggiunto i fratelli, che avranno ritrovato i genitori, finirà il loro viaggio, la loro fuga, il loro dramma. Poco tempo sarebbero stati con loro e soli sarebbero tornati in quell’immensa Francia percorsa da gente, persone di tante nazionalità, minacciata da tante parti durante gli anni della guerra. Più difficile diventerà quando questa starà per finire, quando i tedeschi staranno per perdere e non si saprà con certezza come, dove, con chi è meglio stare. In un momento così drammatico, così esposto alla crudeltà, alla ferocia degli arresti, delle torture, delle condanne, alla violenza dei bombardamenti, degli scontri armati, delle distruzioni, due bambini erano venuti a trovarsi, a nascondersi, a fuggire, persi si erano in un mondo di sola rovina.

Sembra incredibile ma è una storia vera, è veramente successa e di essa dirà Joseph nel romanzo, sua sarà la voce narrante. Di sé bambino scriverà da grande, autore e piccolo protagonista sarà. Spaventato ricorderà di essere stato dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla clandestinità, dal bisogno, dalla miseria, dalla morte, sconvolto, sommerso dal male. Ad ogni grave circostanza sembrerà impossibile che stia accadendo a due bambini, che da due bambini sia vissuta, che oltre ai pericoli della guerra siano essi esposti, perché ebrei, anche a quelli della persecuzione, della deportazione.

A volte, però, succederà che li si veda aiutati dal caso, che la fortuna venga in loro soccorso, e succederà pure che la voce, le parole di chi narra, di Joseph cioè, proprio perché quelle di un bambino, spontanee, innocenti, ingenue, riescano a smorzare, a ridurre la tensione, la gravità di quei momenti. Un bambino che parla di morte toglie a questa l’aspetto tragico, estremo, la libera del carico nefasto che contiene e la fa rientrare tra le altre cose della vita, la fa guardare con la comprensione che ogni evento richiede.

È questa la nota distintiva dell’opera: perché vissuto da un bambino quel male non era più definitivo, si poteva ancora sperare, ci poteva essere ancora bene. Lo si poteva sopportare, superare, poteva finire, poteva rendere più forti come appunto Joseph si sentirà alla fine di tutto. In una lezione di vita si era trasformata quella che all’inizio era sembrata un’impresa impossibile.

La famiglia Joffo finirà di fuggire, tornerà a ricomporsi a Parigi, mancherà solo il padre perché deportato. A tenerla unita, a far sentire vicini i suoi membri anche quando erano lontani, erano stati Joseph e Maurice. Nonostante compissero un viaggio così lungo, così pericoloso non avevano mancato di cercare, incontrare i fratelli, i genitori, di mantenere vivo quel senso di unità, di corrispondenza che è proprio di una famiglia. Perché più piccoli lo avevano sentito di più, ne avevano avuto più bisogno e lo avevano trasmesso agli altri. Tutto mentre la vita, la storia veniva travolta da una guerra tra le più devastanti. Più delle armi avevano potuto quei bambini, vincitori ne erano usciti.

Eccezionale è un’opera che abbia detto tanto, non ci sarà tempo che possa ridurre il suo significato, il suo valore!                                                                                                                

Antonio Stanca