di Antonio Stanca –

Prima che fosse pubblicato è circolato come manoscritto e prima ancora come film: in entrambe le versioni era stata opera di Heather Morris. Nata in Nuova Zelanda, la Morris lavora in Australia, a Melbourne, e dopo la sceneggiatura si è dedicata alla scrittura narrativa. In questa ha esordito nel 2018 col romanzo Il tatuatore di Auschwitz che, appunto, in precedenza era stato un suo film e poi un suo manoscritto. Molto nota è diventata l’opera già prima che fosse pubblicata, “un fenomeno” (“The Times”) è stata giudicata,il romanzo ha venduto quattro milioni di copie, è giunto ovunque. In Italia ha avuto molte edizioni presso Garzanti che quest’anno l’ha ristampato per la seconda volta con la traduzione di Stefano Beretta.

Di una storia d’amore dice, quella tra Lale e Gita, lui proveniente dalla Slovacchia e lei dalla Polonia. Si sono incontrati nel campo di concentramento di Auschwitz, dove erano stati deportati nel 1942 dai nazisti che rastrellavano nazioni, città, paesi, villaggi da essi occupati in cerca di quegli ebrei da arrestare e deportare nei campi di concentramento. Qui venivano assegnati ai lavori più diversi o condannati a morte nei forni crematori. Erano centinaia, migliaia, milioni i prigionieri che da tante parti dell’Europa invasa da Hitler giungevano ad Auschwitz o al vicino altro campo di Birkenau trasportati su camion o carri bestiame e colpevoli solo di essere ebrei. Per quelli che rimanevano in vita cominciava un’esistenza fatta di privazioni, di stenti di ogni genere. Malnutriti, malvestiti diventavano, affaticati per le molte ore di lavoro, per il mancato riposo, spaventati perché esposti alle più diverse angherie da parte dei soldati nazisti che li sorvegliavano giorno e notte insieme ai loro cani. Un inferno diventava la loro vita e uccisi venivano se si mostravano deboli o indeboliti dal lavoro.

Con molta naturalezza, con molta chiarezza la Morris procede nella rappresentazione di questo mondo oscuro, chiuso, isolato tra le foreste della Polonia, nascosto, lontano da tutto. Con questa scrittrice succede che un ambiente simile venga presentato in maniera così semplice, così naturale da perdere quel carattere di orrore che generalmente gli viene attribuito, da diventare uno dei tanti luoghi della vita, della storia, da trovare le sue ragioni. A liberarlo dalla crudeltà, dalla ferocia che lo hanno sempre segnato è la figura di Lale, giovane slovacco al quale, una volta ad Auschwitz, viene assegnato il compito di tatuare i prigionieri che vi giungevano, di imprimere loro, cioè, sul braccio il numero che li distinguerà in quel posto, che sostituirà il loro nome, il loro volto, la loro identità, tutto quanto fino ad allora era stato loro. Lale imparerà a muoversi all’interno di Auschwitz, farà le sue conoscenze, le sue amicizie anche presso i militari tedeschi, aiuterà i più bisognosi tra i prigionieri, i più affamati, i più ammalati, consolerà i più afflitti. Lo si vedrà spostarsi in continuazione tra le diverse parti del campo compresa quella femminile, dove lavora Gita, la ragazza con la quale stringerà un rapporto d’amore. Anche quando Gita è disperata sarà Lale a farla sperare in un futuro diverso, anche quando verranno a contatto diretto con la morte sarà lui a non smettere di farle credere nella vita. Il protagonista dell’opera sarà, il suo eroe positivo.Una dimensione nuova, più umana, più buona è riuscita la Morris a procurare attraverso Lale ad un ambiente sempre minacciato dalla morte. Così ha fatto del romanzo un capolavoro, con l’atmosfera che ha fatto circolare nella storia narrata. Per questa si era informata, documentata, aveva incontrato alcuni dei protagonisti, li aveva interrogati, vera aveva voluto essere, non aveva voluto che la storia differisse dalla memoria di chi l’aveva vissuta.

Non era rimasta, però, a dire soltanto di storia e di memoria ma aveva saputo farle attraversare da uno spirito che andava oltre elo aveva fatto interpretare da Lale, dai suoi pensieri, dalle sue intenzioni, dai suoi rapporti con chi aveva bisogno, dalla suavolontà di partecipare, comunicare, aiutare che neanche un campo di concentramentoera riuscito adeliminare. A tanta forza non poteva mancare quella per l’amore e per ottenerlo, realizzarlo aveva combattuto più che per ogni altro impegno.

Un romanzo d’amore è diventata una storia di morte una volta trattata dalla Morris, una volta presentata con tanta attenzione ai particolari da trasformarsi in uno spettacolo immenso, in un quadro molto grande ma sempre possibile di essere ricondotto ad un senso, ad un significato unico.

Antonio Stanca