di Antonio Stanca –

“I miti dello Sport 2” è una collana di brevi volumi dedicati ai campioni, italiani e stranieri, di attività sportive, a quelli che si sono distinti in modo particolare, che sono diventati un simbolo, un mito nel quale intere generazioni si sono riconosciute. I volumi escono allegati a “La Gazzetta dello Sport” che li ha stampati. Il numero 8, Gino Bartali, è stato dedicato al famoso ciclista italiano e curato da Andrea Schianchi, scrittore e giornalista de “La Gazzetta dello Sport”. Come nei numeri precedenti si è proceduto alla ricostruzione della vita e delle imprese del personaggio presentato, non si è tralasciato alcun particolare e si è addotta una ricca documentazione fotografica.

Bartali era nato a Ponte a Ema (Firenze) nel 1914 ed era morto a Firenze nel 2000. Ottantasei anni era vissuto e fino a più di quaranta aveva fatto ciclismo, aveva partecipato a gare italiane e straniere. Naturalmente non c’erano state le grandi vittorie di prima ma quelle partecipazioni segnalavano il coraggio, la forza di volontà che erano proprie del suo carattere, che tanto lo avevano aiutato nella sua vita, nella sua attività sportiva. In molte circostanze, dalla morte improvvisa del giovane fratello Giulio aitanti incidenti successi durante le corse, quel coraggio,quella volontà lo avevano sostenuto. C’era stata anche la sua fede, anche quella gli era venuta in soccorso nei momenti di crisi, di bisogno. Era stato educato alla religione cattolica, veniva da una famiglia di sani principi morali, aveva formato una propria famiglia altrettanto responsabile, convinta dei valori dello spirito, corretta nei rapporti tra genitori, tra figli. Non aveva smesso di credere nell’amore, nel bene, nel dialogo, nella collaborazione, nella solidarietà. Sempre disposto verso gli altri, specie se bisognosi, si era mostrato.

Il fascismo, il nazismo, la seconda guerra mondiale, le persecuzioni degli ebrei, la guerra partigiana, la formazione della Repubblica italiana, i papi della guerra e di dopo: era stato questo il quadro storico, politico, sociale, religioso che aveva fatto da sfondo alla sua vita, alla sua carriera di ciclista. Non ne era rimasto fuori, non aveva curato soltanto le sue cose e ignorato il resto, non aveva pedalato solo per sé, per vincere tante corse, per ottenere tante vittorie ma anche per gli altri, per portare aiuti, viveri, farmaci ai bisognosi durante il periodo della guerra, per salvare tanti ebrei, per permettere i contatti epistolari tra la periferia e il Vaticano, per vincere, su esortazione di De Gasperi, una gara che evitasse una rivoluzione nell’Italia di dopo l’attentato a Togliatti. Non era solo un campione dalla forza prodigiosa, capace di scalare le Alpi, i Pirenei senza mai rallentare il passo, di vincere tre volte il Giro d’Italia e due il Tour de France, di arrivare primo in tante altre gare, non solo il corridore amato dal pubblico, temuto dagli avversari, l’unico che potesse rivaleggiare con Coppi quando questo ebbe acquistato evidenza, quando diventò il Campionissimo, ma anche l’amico degli altri, quello che partecipava dei loro problemi, delle loro vicende che erano tra le più gravi della storia d’Italia. Non viveva solo dei suoi successi, della sua fama ma prestava soccorso a chi era caduto, a chi era rimasto indietro, lo aiutava ad alzarsi, a riprendere il cammino. E lo faceva di nascosto, a rischio della sua vita, della sua famiglia, delle persone sue più care, della sua fama. Si esponeva a infiniti pericoli, percorreva in bicicletta lunghe distanze pur di aiutare, fare del bene, salvare. Da solo, senza che nessuno glielo chiedesse lo faceva, un eroe nazionale può essere considerato. “Aveva lasciato il mondo un po’ meglio di come lo aveva trovato”, dirà di lui papa Francesco. Ma anche Giovanni Paolo II, Giovanni XXIII, Paolo VI, Pio XII, hanno riconosciuto il suo eroismo, la sua abnegazione, la sua volontà di essere ovunque ci fosse bisogno.

 Lo Stato d’Israele gli ha attribuito le onorificenze riservate ai “Giusti tra le Nazioni” e intanto in Vaticano è in corso un processo per la sua beatificazione.

Dino Buzzati e Indro Montanelli scrissero di lui, sul “Corriere della Sera”, che «…anche mentre correva, non era mai solo un semplice ciclista…» poiché anche ad altro pensava. A quanto gli succedeva intorno e del quale voleva sapere, nel quale voleva essere d’aiuto. Non solo della storia del ciclismo è entrato a far parte ma anche della storia d’Italia.

Antonio Stanca