di Antonio Stanca –

Recentemente è comparsa un’edizione speciale, per conto di Bompiani, di Lettera a chi non c’era (Parole dalle terre mosse) di Franco Arminio. È opera di prosa e poesia. La prima edizione era stata del 2021.

Arminio è giornalista, saggista, poeta, scrittore, regista. È nato a Bisaccia, in provincia di Avellino, Irpinia orientale, nel 1960. Sue opere di rilievo sono le due raccolte di poesie Resteranno i canti del 2018 e L’infinito senza farci caso del 2019, la raccolta di prose e versi La cura dello sguardo del 2020. La sua attività letteraria si alterna con quella giornalistica e con l’altra per la televisione, il cinema. Lo scrittore, il poeta si alternano con l’intellettuale impegnato in problemi di carattere civile, sociale. Molte volte è intervenuto in dibattiti pubblici, in convegni promossi da situazioni di emergenza, dalla ricerca di soluzioni. In questo ambito suo interesse principale è stato quello di recuperare, salvare le aree, le acque, i boschi, i paesi, le strade, le case, la vita, la storia delle zone interne della nostra penisola, di quelle che i tempi moderni hanno fatto quasi dimenticare perché abbandonate sono state a causa delle loro scarse risorse, altrove sono andati a sistemarsi tanti loro abitanti, soprattutto i giovani. Sono emigrati in cerca di lavoro, di fortuna e l’Italia dell’interno, da nord a sud, è rimasta quasi deserta, quasi priva di vita. Eppure tanta era stata la storia che vi si era svolta, tanta la gente che l’aveva abitata. Alla ricerca di quella storia, di quella vita si è mosso Arminio, per esse si è impegnato, ha combattuto. A Bisaccia ha creato “La casa della Paesologia”, luogo d’incontro, di discussione del problema della crisi, della fine dei paesi dell’interno; a Matera ha promosso il Festival “La luna e i Calanchi”, al quale ogni anno partecipano artisti che provengono da molte parti e che insieme alle persone del posto sono interessati a scoprire, rivalutare quanto di quelle terre nel tempo è andato perduto.

Molto si è impegnato Arminio nello svolgimento di questo compito, molto ha fatto, molto ha scritto ed anche in lettera a chi non c’era è tornato sull’argomento. È partito dal terremoto del 1980 in Irpinia ed è giunto alle considerazioni, alle conclusioni di sempre. Dice di quanti paesi furono allora coinvolti nel terribile evento, di quanti ne furono devastati, di quanto poco è stato fatto per la loro ricostruzione, di come in seguito sia aumentata l’emigrazione, di ciò che è rimasto. Lui, Arminio, c’era stato, erano i suoi posti, era stato inviato da giornali, dalla televisione, aveva visto case distrutte, persone disperate, aveva scoperto lutti inconsolabili, perdite irrimediabili, aveva assistito a gravi situazioni di desolazione, di abbandono, di rovina, di povertà, di morte. Aveva visto aggravati i problemi che già esistevano. Poi, nel libro, il suo sguardo è andato a posarsi su altri avvenimenti, altre tragedie della storia italiana, terremoti di Messina, Avezzano, Emilia, L’Aquila, Marche, e della storia mondiale, naufragi, disastri avvenuti nei tempi moderni in posti diversi, lontani con decine, centinaia, migliaia di vittime. In alcuni casi non era stato possibile prevederli ma in molti altri la causa era stata l’incuria, la mancata osservanza delle regole. E qui l’autore si sofferma a denunciare quello che non si fa prima né dopo una disgrazia: prima non la si previene dopo non la si ripara. Un tono polemico assume l’opera anche nella parte poetica, contro la negligenza, la disattenzione, ormai diventate comportamento diffuso, si scaglia l’Arminio e lo fa anche a proposito dei terremoti. In questi casi riconosce la difficoltà e quasi impossibilità di prevederli ma condanna, specie in Italia, la lentezza, l’insufficienza, l’inesistenza delle operazioni volte a ricostruire, recuperare quanto distrutto, riparare i danni, provvedere alle condizioni di vita mentale e fisica dei superstiti. Gravissima è stata la condotta dello Stato, del Governo italiano riguardo a quelle emergenze. Non è possibile tollerare, spiegare il mancato aiuto di fronte a chi soffre, a chi muore, la speculazione che ne è conseguita.

Un invito proviene, quindi, da parte dell’autore a cercare in sé quanto in situazioni simili è necessario per andare avanti, continuare, sperare. È il poeta Arminio che emerge, che di fronte a tanta rovina materiale e morale torna a credere nell’uomo, nella sua capacità, nella sua volontà di scoprirsi vicino, uguale agli altri, unirsi a loro, pensare, fare, vivere con loro. Non crede Arminio che queste qualità dell’animo umano siano finite insieme a tant’altro che i tempi hanno annullato. Non le considera proprie dei tempi ma dell’uomo e destinate a rimanere per sempre sue. Con un messaggio di fiducia nelle eterne risorse umane si conclude l’opera, con un invito ad avere coraggio, a non arrendersi neanche quando tutto sembra perso, finito.

È lo spirito dell’artista che, come altre volte nell’Arminio, supera quello del giornalista, del cronista e va oltre quanto si vede, si soffre!

Antonio Stanca